Sessant’anni fa la “Tragedia del Vajont”: due ex militari che vivono a Cesena erano in prima linea negli aiuti

Erano passati 60 anni esatti ieri da quella che nell’immaginario collettivo italiano è una delle maggiori tragedie avvenute nella storia del Paese.
Il disastro del Vajont si verificò esattamente la sera del 9 ottobre 1963: nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont all’interno dell’omonima valle. Quando una frana precipitò dal soprastante pendio del Monte Toc e il superamento della diga da parte dell’onda generata provocò la distruzione degli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone, e la morte di 1.910 persone, tra cui quasi 500 infra diciottenni.
Nei giorni successivi due cesenati vissero da vicino quel dramma: chiamati ad aiutare la popolazione colpita dal disastro. Vittorio Castorri, 82 anni, ed il suo coetaneo Pasquale Caputo, vivono a Villachiaviche. Ma all’epoca erano commilitoni nella 64ª Compagnia alla caserma Zanuchelli. E furono dirottati in prima linea per gli aiuti umanitari.

«Alle 23 è scattato l’allarme - ricorda Caputo che era caporale ed era appena tornato da una licenza - Pensavamo ad una esercitazione invece alle 3 di notte eravamo stati portati fino a Ponte delle Alpi dove già i mezzi di soccorso erano incolonnati. A Longarone ci siamo arrivati a piedi».
I militari non sapevano nulla. Si ricorrevano delle voci ma a tanti residenti pareva impossibile fosse crollata la diga. «Avevamo badili, picconi ma niente luce. Era il buio assoluto. La ferrovia era stata portata via dall’acqua ed era tutta ritorta. Il tenente con una pila faceva luce ed era molto freddo». Alla vista di un campanile pensavano di essere vicini al paese: «Ma quello era già il paese. Un paese che non c’era più. All’alba ci siamo accorti di essere nella zona del cimitero dove tutti i feretri e le salme erano stati riesumati in maniera agghiacciante dall’onda di piena». Scene da film horror: «Il tenente ci stava assegnando le aree di soccorso e nella penombra scorse quella che gli pareva essere una scopa appoggiata a terra. Non era uno strumento utile per pulire ma il corpo senza vita di una donna giovanissima. Abbiamo raccolto la giovane e sotto di lei c’erano, morti, anche i due figli. Eravamo senza guanti, senza mascherine: una farmacia aveva in deposito molti fusti di veleno il cui contenuto si era a quel punto sparso per tutto il paese. Quindi anche per noi era molto pericoloso mettere le mani in avanti ed aiutare».
Un camion passava. Venivano caricati i morti. «La campana della chiesa era caduta. Soltanto io avrò trovato una cinquantina di persone morte. I vivi ci chiedevano aiuto. Due ragazzi che si erano salvati (erano al cinema) ci portarono a casa loro per cercare i parenti. Ma erano tutti morti».
Pasquale Caputo rimase 3 mesi a scavare dopo la tragedia. Quando rientrò in licenza era dimagritissimo. Anche perché il cibo ai militari veniva distribuito raramente in quel contesto. Negli anni successivi il cesenate ha ricevuto onorificenze e tante manifestazioni di affetto dalle scuole di Longarone. Anche se in un incontro ha dovuto subire l’ulteriore trauma di riconoscere, nei ricordini funebri d’epoca, la giovane ragazza ed i figli che aveva trovato morti per primi.

«Io sono andato là il giorno dopo - ricorda Vittorio Castorri - Ed ero stato assegnato a ripulire nella zona del campanile. L’immagine che ricordo era il paese sventrato e spazzato via: il cimitero era stato “scoperchiato” dall’acqua e c’erano casse da morto sparse ovunque. Io non ho trovato corpi di di persone appena morte. Ero già troppo sconvolto da quanto visto ed ho cercato per tutto il tempo di non imbattermi in cadaveri. Sono rimasto un mese tra le macerie. Di un paese che sembrava definitivamente perduto ma nel quale poi, anche chi era emigrato prima della tragedia, è tornato a vivere»