Volontaria di Riccione: "La mia vita per i migranti. Basta razzismo"
RICCIONE. Quando il “suo” mare Adriatico ha iniziato a non essere più solo quello delle spensierate estati sul bagnasciuga romagnolo ma anche quello dei barconi carichi di albanesi stipati come sardine che approdavano sul tacco dello Stivale e quando negli anni dell’università all’ombra delle Due Torri ha sentito riecheggiare i primi virgulti di “intolleranza” della neonata Lega Nord è rimasta quasi folgorata. Ha capito quale era la sua strada e ha deciso che il suo destino sarebbe stato lontano dalla sua Riccione, in un continuo “peregrinare” fra i Continenti alla ricerca di una verità da denunciare a ogni latitudine e longitudine. Nelle stanze dei bottoni dell’Europa e dell’Africa.
Erano gli anni ’90, Sara Prestianni, classe 1979, era poco più che adolescente, ma a distanza di tanto tempo e con alle spalle migliaia e migliaia di chilometri macinati sul campo a stretto contatto con l’orrore la riccionese, diventata rappresentante della società civile europea e internazionale, dirigente politica, docente universitaria, giornalista e fotografa, ha la medesima determinazione di allora. E’ costantemente in viaggio e in prima linea sul tema dell’immigrazione. In Italia e Oltralpe. E all’indomani dell’intervento di mercoledì a “Presa diretta” nei panni di collaboratrice con l’Arci Nazionale in un progetto di monitoraggio delle politiche di esternalizzazione del controllo delle frontiere in Africa si racconta a cuore aperto, manifestando la necessità di riportare i diritti umani al centro della vita civile e manifestando tutta la sua contrarietà all’accordo con la Libia.
Partiamo dal principio, a quello che l’ha spinta e la spinge ancora oggi a mettersi in gioco quotidianamente.
«Sono nata e cresciuta a Riccione, ho frequentato il liceo classico Giulio Cesare a Rimini e mi sono laureata in Scienze Politiche a Bologna. Erano gli anni dei barconi di albanesi che arrivavano in Puglia e quelle immagini mi sono rimaste impresse, provocando in me il desiderio di spendermi per le politiche immigratorie. Un desiderio amplificato dal razzismo verso il sud e le forme di odio che caratterizzavano fin da subito la nascitura Lega Nord. Sono stati questi due fattori ad avermi fatto nascere la volontà e la consapevolezza di voler contrastare ogni forma di razzismo. L’altra spinta decisiva mi è arrivata dall’esperienza dell’Erasmus in Francia, un Paese da tempo teatro di flussi costanti e di politiche di integrazione. Tornata in Italia, ho quindi deciso di specializzarmi e, una volta laureata, ho conseguito un Master di specializzazione in Relazioni Internazionali con particolare riguardo all’Area del bacino Mediterraneo presso le università Ca Foscari di Venezia, Paul Valery di Montpellier e l’Universitat Autònoma de Barcelona».
Master che le diede la spinta a fare armi e bagagli.
«Decisi di tornare in Francia per poter portare avanti al meglio il mio progetto di vita, sono diventata coordinatrice della rete euro-africana Migreurop, dal 2004 ho iniziato a occuparmi di politiche europee d’immigrazione come esperta di advocacy e analisi geopolitica e per dieci anni ho risieduto a Parigi. Dieci anni in realtà di viaggi perenni, in cui ho percorso tutte le rotte dei migranti: dalla Turchia alla Spagna, dal Marocco alle Canarie e dalla Libia al Mali, affiancando l’analisi politica a un racconto fotografico pubblicato su diverse testate internazionali e diventato una mostra esposta in gallerie di Amsterdam, Bruxelles, Madrid, Parigi e Roma. Viaggi in cui ho incontrato migliaia di migranti, ho raccolto testimonianze dirette di diritti violati, cercato di comprendere le politiche sbagliate di gestione dei flussi in un’epoca in cui ancora poco si parlava di immigrazione. Viaggi che mi hanno consentito di elaborare proposte poi portate al Parlamento Europeo e attraverso cui ho potuto creare una vera rete fra associazioni del Nord Africa e dell’Europa».
Quell’Africa in cui nel 2012 decise di trasferirsi.
«Era arrivato il momento di vivere immersa in questo contesto per raccontare non solo le storie del mare ma anche quelle del deserto. Sono quindi andata a vivere a Bamako, in Mali, poi a Dakar in supporto alle attività di advocacy della società civile locale presso la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli. Fu un colpo di Stato a obbligarmi a spostarmi in Senegal da dove ho continuato a lavorare con missioni in Libia, Niger, Gambia, ho tastato con mano situazioni sempre più tragiche e ho rafforzato la convinzione della necessità di una risposta politica diversa e adeguata. In tutto quel tempo, non ho però mai perso di vista l’Italia e per tanti anni sono andata a fare la volontaria a Lampedusa cercando di raccontare a livello europeo e internazionale ciò che accadeva sull’isola: ogni estate ci ho passato un mese per riconnettere il fenomeno globale con la dimensione italiana. Il 2012 è anche l’anno in cui ho deciso di tornare a vivervi in Italia, per investire quanto appreso battendomi nel mio Paese: mi sono trasferita prima a Roma e ora a Bologna, mantenendo comunque questo ponte con l’Africa e Bruxelles quale consulente per organizzazioni internazionali e associazioni nazionali in Belgio, Francia Spagna e appunto nel nostro Paese. Dal 2016 insegno strategie di advocacy e relazioni internazionali in due Master presso l’Università di Scienze Politiche di Toulouse e la Link Campus University di Roma (in quest’ultima ora non più, ndr) e collaboro con l’Arci Nazionale in un progetto di monitoraggio delle politiche di esternalizzazione del controllo delle frontiere in Africa».
Veniamo ai giorni nostri.
«Sono in Italia, ma passo ancora la vita in viaggio fra Africa ed Europa per continuare a raccontare in incontri, conferenze e all’Università quel buco nero in cui stavamo cadendo: nell’anno e mezzo di Salvini al governo sono stata molto contenta di essere qua, perché c’era la necessità di raccontare quello che veramente stava accadendo, contrastare la politica dell’odio e denunciare quanto subiscono migranti e italiani in una società civile sempre più criminalizzata. E’ stato importante fare eco di quello che succedeva in uno dei periodi più bui della nostra storia non solo per chi arriva in Italia, ma anche per tutti noi, costretti a subire violenza verbale quotidiana e frasi colme di odio».
Come si articola la sua azione con l’Arci nazionale?
«Denuncio l’opacità dell’uso dei fondi europei e italiani nella gestione delle frontiere dei Paesi di transito, in particolare la Libia che mi sta particolarmente a cuore visto che ci lavoro da 15 anni e penso Italia abbia grandi responsabilità: l’accordo firmato già nel 2008 e poi nel 2017 ha come conseguenza migliaia di persone respinte nei centri di detenzione e questo significa molti più morti in mare. Mi batto quindi perché venga stracciato e perché i diritti umani ridiventino la luce guida della gestione delle politiche di immigrazione».
Un’ultima cosa, nei suo tanti viaggi ha mai avuto paura di non tornare a casa?
«Sono stata in Paesi altamente pericolosi quali il nord del Mali e del Niger o la stessa Libia, ma la volontà di raccontare politiche spesso sbagliate perché non si conoscono le situazioni e il desiderio di verità sono sempre stati più forti della paura».