Accoltellamenti di Capodanno a Villa Verucchio, in stato confusionale dal pomeriggio e l’ipotesi di un gesto eclatante per essere rimpatriato

Verucchio

Negli ultimi tempi lo si vedeva a Rimini, al centro islamico Al Tawhid, dove era stato anche il pomeriggio del 31 dicembre, poche ore prima dell’aggressione ai danni di alcuni passanti a Villa Verucchio culminata con la sua morte. Quel giorno, come ricordano alcuni frequentatori del luogo di culto, Muhammad Abdallah Abd Hamid Sitta era stato notato in Corso Giovanni XXIII. Difficile d’altronde che passasse inosservato. Seduto a terra appoggiato ad un portone, sguardo assente, un evidente tremore delle gambe e in mano la misbaha, la catena di preghiera, che muoveva con il pollice, era stato anche ripreso da un amico. Un filmato di qualche secondo inviato ad un altro conoscente a cui l’autore del video avrebbe manifestato preoccupazione per le sue condizioni. E tra le possibili motivazioni del suo gesto, la convinzione che un gesto eclatante gli avrebbe consentito di essere rimpatriato

Poche frequentazioni

Pochi conoscevano il 23enne ucciso, anche perché «stava quasi sempre da solo», ma ultimamente la sua presenza era diventata più assidua. «Lo si vedeva soprattutto il venerdì, ma di recente, parliamo delle ultime settimane, veniva più spesso» spiegano i fedeli di religione islamica che si ritrovano abitualmente alla moschea durante gli orari di apertura per le preghiere. Qualcuno aveva avuto modo di scambiare con lui giusto qualche parola, nulla di più. Gli unici con i quali era in contatto erano gli altri ragazzi della struttura di accoglienza dove viveva e un paio di connazionali, uno dei quali era arrivato insieme a lui in Italia nel 2022 su un barcone.

La sua storia

Giunto in Romagna, Muhammad era stato ospite di diversi centri, inizialmente a Poggio Torriana, poi Santarcangelo e a Villa Verucchio. Qualche lavoretto saltuario, ma mai un’occupazione stabile, l’inserimento in un programma di integrazione senza però mai un vero inserimento sociale e il peso del debito accumulato dalla famiglia in Egitto per permettergli di raggiungere l’Europa e inseguire il sogno di una vita diversa. Gli ultimi due anni li avrebbe trascorsi così, isolandosi sempre di più nel proprio disagio.

Perché anche secondo quanto raccolto da Aly Harhash, presidente della comunità egiziana che in queste ore sta assistendo i familiari del giovane, il ragazzo soffriva di problemi psicologici. Nessun indottrinamento o radicalizzazione sarebbe dunque all’origine delle aggressioni, come peraltro ribadito dagli inquirenti alla luce delle risultanze delle prime indagini. Stando alle testimonianze raccolte tra parenti e conoscenti del giovane, il 23enne non era un integralista, ma semplicemente un «giovane che avrebbe avuto bisogno di aiuto, di essere seguito» rimarca Harhash.

Ci sono stati campanelli di allarme che potevano essere colti? Segnali che potessero in qualche modo essere valutati come un potenziale pericolo? Un quesito che molti si sono posti all’indomani della tragedia di Capodanno. Gli accertamenti in corso da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo di Rimini cercheranno di appurare se quello stato confusionale palesato nel video girato il 31 dicembre possa in qualche modo essere riconducibile all’assunzione di farmaci o medicinali come quelli ritrovati nella struttura dove viveva il giovane. Quello della sua personalità d’altronde è uno degli aspetti che gli inquirenti stanno cercando di ricostruire nel tentativo di fare luce su cosa abbia spinto il 23enne ad aggredire con un coltello degli sconosciuti a poche ore dallo scoccare del nuovo anno.

La crisi

Secondo alcune testimonianze, negli ultimi tempi Muhammad aveva avuto un crollo emotivo, legato alla sottrazione di soldi, documenti (tra cui il passaporto) e un monopattino che usava per spostarsi. Furti che però non avrebbe denunciato. Inoltre, sempre secondo persone a lui vicine, proprio alla luce di alcune manifestazioni di disturbi mentali emerse negli ultimi mesi sarebbe stato accompagnato all’ospedale, altro aspetto su cui gli investigatori stanno cercando riscontri. Ma per chiudere l’indagine servirà tempo. Dopo le prime risultanze dell’autopsia sul corpo del giovane (cinque i colpi esplosi dal carabiniere che cercava di fermarlo, attualmente indagato per eccesso colposo di legittima difesa), si attende la relazione completa, oltre ai dati tossicologici, alle risultanze degli accertamenti balistici e all’analisi dei video della sparatoria. «Siamo convinti che il militare abbia fatto il suo dovere, non vogliamo vendetta, ma solo verità e giustizia. Abbiamo la massima fiducia nella magistratura italiana - ha ribadito Harhash -. Non vogliamo accusare nessuno, l’unico aspetto di perplessità è se, specie da un esperto di tiro, non ci fosse modo di fermare il ragazzo senza colpire organi vitali».

Parole che hanno suscitato la reazione di Jacopo Morrone. «Non ci impressiona il racconto dell’arrivo e della permanenza in Italia di Sitta. Dimostra - continua il parlamentare e segretario della Lega Romagna - solo due dati: che per Sitta lo Stato italiano aveva attivato i dovuti percorsi con il contestuale dispendio di risorse pubbliche e l’opportunità di arrivare nel nostro Paese attraverso percorsi migratori regolari per chi abbia la volontà e le capacità per inserirsi nel mondo del lavoro. Quanto ai ventilati problemi psichici, non sono né Harhash né gli ipotetici amici di Sitta che possono certificarne lo stato di salute mentale. Servono i certificati autentici rilasciati dall’ospedale e dai medici specialisti a cui Sitta era stato eventualmente indirizzato e a cui si sarebbe dovuto attenere come qualunque altro paziente».

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