Mignani: “Tranquilla, educata e appassionata di calcio, ecco perché adoro Cesena”

«Andiamo in ufficio». L’ufficio è naturalmente una panchina, sulla quale si siedono contemporaneamente un uomo e un allenatore. L’uomo di nome fa Michele, è nato a Genova e tra poco più di un mese compirà 53 anni, mentre l’allenatore di cognome fa Mignani, è nato dentro a un rettangolo verde, dal quale è uscito definitivamente 16 anni fa per cominciare la sua terza vita, proprio in panchina. Dell’allenatore, in questi otto mesi alla guida del Cesena, sono emerse tante sfumature, mentre la conoscenza dell’uomo non è mai stata (colpevolmente) approfondita. Per questo, sulla panchina di Martorano, l’obiettivo è uno: provare a scavare nella vita dell’uomo. Per conoscerlo meglio.

Mignani, quando le chiedono “come è lavorare a Cesena” lei che parole usa e cosa risponde?

«Allenare a Cesena è particolare, perché è un ambiente diverso dagli altri. Quando arrivi allo stadio, ma anche sul pullman, vedi un sacco di famiglie e di bambini. C’è un clima inglese, quindi è particolare fare l’allenatore in questa città».

Ha mai pensato di non essere l’allenatore giusto per Cesena e per il Cesena?

«Io credo che ognuno debba dare il massimo e debba cercare di migliorarsi quotidianamente. Poi sapere se sei la persona giusta nel posto giusto lo possono dire solo il tempo, i fatti e i risultati».

Cosa ha di speciale questa città?

«Trovo tanta tranquillità, tanta serenità e tanta educazione. Sono le cose che piacciono a me, perché io sono una persona tranquilla, non vado alla ricerca di esperienze particolari. Nella tranquillità e nella serenità di questa città mi ci rivedo tantissimo».

Dopo tanti anni, lei è il primo allenatore che arriva a Cesena senza alcun calciatore di fiducia o allenato in passato. E’ indispensabile avere uno dei propri uomini di fiducia in squadra?

«Non è indispensabile, ma può essere un vantaggio, perché ti aiuta e ti porta avanti il lavoro. Ma avere una squadra tutta nuova, quest’estate, per me è stato un grande stimolo».

Un giorno lei ha dichiarato: «Penso di c’entrare poco con il mondo del calcio». Cosa intendeva?

«Intendo dire che, per l’educazione che ho avuto e per il mio modo di essere e di fare, non mi piace stare molto al centro dell’attenzione. Mi sento un uomo riservato, a cui non piace tanto parlare e rilasciare troppe interviste. Sto meglio quando gli altri non sanno quello che penso ma non perché mi voglio nascondere, ma perché vivo me stesso e voglio concedermi poco agli altri. Il nostro mondo, invece, è una continua esposizione e un continuo parlare, però mi adeguo perchè in questo mondo io ci sto bene e questo mondo mi ha dato tanto».

Riavvolgiamo il film della sua vita. Lei nasce a Genova, ma in quale quartiere?

«Sono nato nel quartiere Albaro, tra il centro, la parte dell’entroterra e del mare, in una posizione strategica. Vengo da una famiglia molto semplice e poco numerosa. A Natale eravamo sempre e soltanto io, mio padre, mia madre, mia sorella e mia nonna. Ho avuto la fortuna di avere due genitori meravigliosi, che mi hanno lasciato dei valori importanti. Non mi è mai mancato nulla e sono cresciuto con il senso del dovere. Mio padre è rimasto orfano di suo papà quando aveva 6 anni, non sapeva come si facesse il padre, perché di fatto non lo aveva avuto, e per questo mi ha sempre trattato come un grande. Di conseguenza io sono diventato grande prima del dovuto».

Suo padre Giorgio ha rappresentato la figura centrale della sua vita, anche perché allenava le giovanili della Sampdoria. Per lei è stato anche un “apripista”?

«Sì, era un appassionato di calcio. A Genova non c’è molto altro. Tolte alcune squadre di pallanuoto e il salone nautico, dal punto di vista sportivo la città offre poco e ti porta a fare una scelta: seguire il Genoa o la Sampdoria. Noi siamo di estrazione sampdoriana. Mio padre mi portava al vecchio Marassi fin da quando avevo 6 anni, vidi la Sampdoria vincere la B e salire in A, poi da lì ho vissuto prima da tifoso e poi da calciatore del settore giovanile la grande ascesa della squadra, che ha vinto lo scudetto (con Mignani in rosa, ndr) e sfiorato la Coppa dei Campioni a Wembley».

Se non avesse fatto il calciatore e poi l’allenatore, oggi cosa sarebbe?

«Sicuramente avrei studiato, perché mi ero iscritto a Giurisprudenza. Da piccolo sognavo di fare il pilota di aereo, ma poi mi sono accorto che soffrivo di vertigini e allora ho rinunciato. Quindi avrei studiato e avrei provato a fare l’avvocato».

Nel suo percorso professionale, pensa di essere cresciuto più da calciatore o più da allenatore? Quale dei due ruoli le ha dato di più?

«Sono cresciuto maggiormente giocando. Da calciatore sono gli anni in cui decidi cosa fare nella vita, dai 20 ai 35. Da allenatore ti porti dietro le esperienze del calciatore ed hai già avviato e indirizzato il tuo percorso di vita».

E’ nato in una città di mare come Genova ma è vero che non sa nuotare?

«Sì, è vero (sorride, ndr). Principalmente per due motivi. Il primo: mio papà, quando ero piccolo, mi ha fatto vedere tutti i film come lo Squalo, la Piovra, l’Orca Assassina e mi è rimasto il trauma, quindi non ho mai voluto affrontare l’acqua. Il secondo motivo: in Liguria, soprattutto a Genova, l’acqua è molto scura e soprattutto è subito alta. E questo particolare l’ho sempre sofferto e mi ha condizionato».

Quando va a vedere suo figlio Guglielmo, centravanti della Pianese, guarda la partita con gli occhi del padre o dell’allenatore?

«Beh, inconsciamente entro come papà, perché la vivi così: hai paura che si faccia male, speri che faccia gol o che vinca tutte le partite. Poi, involontariamente, guardi tutto il resto e diventi allenatore: guardi se c’è qualche compagno forte, come sono messe in campo le squadre, le palle inattive, la tattica. Diciamo che entro da padre e poi divento allenatore».

Si aspettava, al primo anno tra i professionisti, che Guglielmo potesse segnare ben 14 gol in 31 giornate?

«Onestamente no, anche se veniva da due ottimi anni. Però sapevo e so che raggiungerà il massimo delle sue potenzialità grazie al suo carattere. E’ un ragazzo meraviglioso che ha sempre avuto quello come suo pensiero fisso nella vita e ha dato tutto per arrivarci. C’è chi ha talento e lo spreca e ci sono altri che ne hanno meno ma che arrivano più in alto con il lavoro e il carattere. Ma anche l’altro mio figlio Carlo, che ha tre anni in meno e gioca in Serie D al Poggibonsi dopo quattro stagioni nel settore giovanile della Fiorentina, si sta ben comportando. Siamo uno il tifoso degli altri due e il mio sogno sarebbe quello di allenare in Serie A i miei due figli. Carlo si è pure iscritto all’università e di questo sono davvero molto contento».

Consiglierebbe ai suoi figli, dopo aver smesso con il calcio giocato, di diventare allenatori?

«Solo se se lo sentissero davvero, altrimenti no. L’istinto ti porta alla ricerca di quello che riesci a fare meglio, quindi dovranno ascoltare il loro istinto. Io ho capito che avrei potuto allenare perché in campo, complice il mio ruolo, non vivevo mai la partita per me ma per la squadra. Quello è stato il segnale».

A proposito, per lei che l’ha solo sfiorata, cosa rappresenterebbe la Serie A?

«Sarebbe la realizzazione finale del mio percorso. Ho cominciato come allenatore del settore giovanile, poi sono stato in Serie D, dove ho vinto i play-off. Sono passato in Serie C, dove ho vinto il campionato, e sono arrivato a un minuto dalla Serie A. Arrivarci con le mie gambe, come ho fatto per tutta la mia vita, sarebbe il massimo».

Che rapporto ha con la cucina? Le piace cucinare?

«Non ho un gran rapporto con la cucina e non mi piace cucinare. Però ho un piacere: amo andare fuori a mangiare, soprattutto alla sera».

Dovesse organizzare una cena con allenatori italiani e stranieri per parlare di calcio, chi inviterebbe?

«Sicuramente Ancelotti, perché è una persona piacevole, poi Ranieri, che ammiro tantissimo. Aggiungo Allegri, per quanto ha fatto, e poi Guardiola e Klopp, perché all’estero sono i migliori, due innovatori».

Andrea Trinchieri, allenatore di basket dello Zalgiris Kaunas, ha dichiarato: «Non posso più urlare ai giocatori come 20 anni fa perché i giocatori e il mondo sono diversi». Lo fa anche lei? E cosa pensa dei tecnici che urlano e sbraitano sempre?

«Penso di aver urlato poco anche con i miei figli. Per me non è necessario urlare quando devi spiegare concetti o devi dare indicazioni. Non è che chi alza di più la voce è più bravo o ha più valore. Ci sono dei momenti in cui la voce va alzata e e la squadra va scrollata, ma bisogna urlare dicendo cose giuste. Urlare solo per alzare il volume della propria voce non conta nulla e non ha senso. Però non è vero che non urlo mai, mi è capitato anche quest’anno. L’importante è restare se stessi: agli occhi dei calciatori sei credibile solo se riesci ad essere sempre te stesso».

Tornando al Cesena e all’attualità, con lei non ci sono suoi ex calciatori ma uno staff profondo del quale si fida ciecamente e con il quale lavora da anni. Che tipo di rapporto avete?

«Siamo una squadra e questo è un valore aggiunto. Siamo arrivati a un livello di conoscenza in cui ormai basta uno sguardo per capirsi, non dobbiamo neppure parlarci o consultarci. Io ho più responsabilità in alcuni momenti, ma per me la responsabilità è di tutti. Sono solo quello più esposto e loro sono bravi a starmi vicino e ad aiutarmi, dandomi tutto ciò di cui ho bisogno per essere sempre credibile davanti alla squadra».

Lei è stato allenato da Bolchi, un mito a Cesena. Maciste sosteneva che «il calcio è competizione e non esibizione, non è un saggio ma si gioca per il risultato». Che cosa ne pensa?

«Riassume quello che deve essere il calcio e quello che fai. Nell’arco di 38 giornate non puoi essere al top per 38 partite, quindi devi essere bravo a raccogliere il massimo soprattutto nei momenti in cui non sei al massimo. Alla fine contano i punti: i punti ottenuti giocando un calcio spettacolare valgono come i punti ottenuti giocando un calcio più concreto».

Se dovesse scrivere un libro sulla sua vita, come lo intitolerebbe?

«La ricerca della felicità. Perché la vita è una e dobbiamo viverla al meglio. Cercando sempre di essere felici».

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