Il Flaminio riabraccia Bucchi, il tecnico che regalò l’Europa alla Rimini del basket

Ci sono due allenatori che hanno portato il Basket Rimini in serie A1 ed entrambi si chiamano Piero. Uno è il Topone Pasini che ci è riuscito due volte, l’altro è Bucchi che è anche l’unico tecnico ad aver portato la pallacanestro riminese in Europa (doppia qualificazione all’allora coppa Korac).

Piero Bucchi, 66 anni, tornerà domenica al Flaminio alla guida di Brindisi, 24 anni dopo quella che fu la sua ultima volta da ex: garadue degli ottavi play-off 2000, Bucchi alla guida della corazzata Benetton Treviso, sulla panchina riminese c’era Paolo Carasso. Vinse Rimini e pareggiò la serie, per poi perdere la bella in Veneto.

Piero contro Paolo 24 anni dopo, anche se non uno contro l’altro in panchina. «Non sono sorpreso che uno come Paolino sia riuscito a costruire qualcosa di importante come il progetto Rinascita Basket Rimini. Ho sempre pensato che avrebbe potuto ricoprire più mansioni nel mondo della pallacanestro, perché sa allenare essendo cresciuto con la palla in mano, ma sa anche ricoprire un ruolo dietro la scrivania perché ha avuto la scuola del padre come dirigente. Conosce l’ambiente riminese e il basket a 360 gradi e soprattutto ne conosce tutte le sfaccettature, in campo e fuori».

Bucchi quell’anno giocò due volte da ex al Flaminio e perse due volte. Domenica sarà dura spezzare questo tabù. «Comincio a vedere la luce in fondo al tunnel. Brindisi quest’anno non è mai stata al completo, fatta eccezione per la partita in casa contro Forlì. Subito dopo ho perso per infortunio due giocatori da quintetto, poi un altro e per un gruppo nuovo che aveva bisogno di crescere e lavorare assieme, ma soprattutto che aveva bisogno di certezze, è stata dura. Speriamo di ottimizzare il periodo positivo dell’ultimo mese».

Bucchi è stato una prima volta a Brindisi dal 2011 al 2016 conquistando una promozione in A1 e una coppa Italia di A2. E non ha esitato quando la società l’ha richiamato in Puglia. «A Brindisi la pallacanestro è molto seguita, è un’istituzione, ho sempre trovato tanta passione e competenza, una piazza ideale per lavorare. Nel 2011 dissi che si poteva subito salire in A1, mi presero per pazzo invece vincemmo il campionato e fui ricoperto di affetto da città e tifosi».

Restiamo sull’attualità, si sarebbe aspetto di arrivare a Rimini trovando RivieraBanca sola al comando della classifica? «No, ma non mi meraviglio. La squadra è stata sempre migliorata negli anni, in estate è stata costruita in modo intelligente, con grande acume, sono stati aggiunti i giocatori giusti per formare un roster completo e soprattutto adatto a questa A2, il giusto equilibrio tra talento ed esperienza. Poi hanno aggiunto Gerald Robinson che ho avuto la fortuna di allenare un anno a Roma e due a Sassari: ha la grande capacità di coinvolgere tutti i compagni, elevando sempre il livello della squadra che credo possa essere inserita tra le favorite per la promozione diretta».

Torniamo indietro. Perché Bucchi arriva a Rimini nel 1992? «La squadra era stata appena promossa in A1 e Massimo Bernardi, allora capo-allenatore, cercava un assistente. Io avevo lavorato nelle giovanili della Virtus, con qualche assaggio di serie A, ma dopo otto anni ero intenzionato a cambiare aria, volevo vedere cosa c’era al di fuori della Virtus Bologna. Parlai con Massimo, con Carasso e Cervellini e 32 anni dopo ripenso alla fortuna che ho avuto ad accettare quella chiamata. Rifarei quella scelta, quell’esperienza, sette anni a Rimini importanti sul piano professionale e umano: è il posto dove i miei figli sono cresciuti e dove abitano e dove ho tuttora la residenza».

A volte il destino ci mette lo zampino, nel caso di Bucchi si parla del suo 38° compleanno. «Eh sì perché proprio quel giorno sono diventato capo-allenatore del Basket Rimini».

Cacciato Hruby, la società decise per una scelta interna. «Mi chiesero disponibilità, anche in quel caso accettai subito».

La beffa di Venezia fu il trampolino di lancio per la promozione A1 l’anno successivo, poi le due grandi annate in A1. «La prima partì malissimo: la miocardite di Ferroni, l’infortunio al collaterale di Scarone, ma riuscimmo a compattarci, arrivarono salvezza e play-off».

Chi parla adesso di effetto-Flaminio dovrebbe ricordare cosa rappresentava il “palazzo” in quegli anni. «Giocare lì è sempre stato bellissimo - ricorda Bucchi - i tifosi vicinissimi alla squadra, qualche punto in più è arrivato proprio per la forza del Flaminio. Vedo che anche adesso c’è un gran bell’ambiente, mi aspetto un gran tifo domenica, ma caldo e corretto come da tradizione».

Flash-back della sua avventura riminese? «Il primo allenamento da capo-allenatore non lo dimenticherò mai, poi tutta la serie play-off che ci ha portato in A1 quando abbiamo battuto 3-0 Caserta e Montecatini. Poi un ricordo strettamente personale. Mi presentavo sempre in conferenza stampa con mio figlio Enrico sulle ginocchia con la lattina Pepsi in mano. Quegli anni sono volati, ma la sintonia con la dirigenza e con la città era speciale».

Bucchi ha lavorato in piazze storiche (Milano su tutte), sette di queste hanno scudetti in bacheca, ma “Pierino” non ha mai vinto un tricolore. E’ un cruccio? «Beh sì, manca a completamento di una carriera che mi ha regalato tre coppa italia e quattro promozioni in A1. Ho fatto tre finali scudetto due con Milano e una con Treviso, parecchie semifinali, quindi la mia carriera mi ha dato grandi soddisfazioni. E in tutti questi anni la famiglia ha sempre avuto ruolo importante, direi fondamentale».

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