Il “Trovatore” di Livermore, un regista musicista

BOLOGNA. “E vivo ancor!” esclama il Conte di Luna scoprendo infine di aver mandato a morte il fratello, Manrico, che per tanti anni ha ricercato. È su questa frase fulminea, con cui Verdi chiude l’opera, che Azucena riesce con un guizzo inatteso di disperata energia a tagliargli la gola: vendicando sì la morte della propria madre, ma anche quella di Manrico, figlio-non-figlio amatissimo. Ed è così che si chiude il sipario sul “Trovatore” in scena nei giorni scorsi al Comunale Nouveau, a Bologna, secondo il disegno registico di Davide Livermore – già debuttato nello scorso Festival Verdi a Parma e qui ripreso da Carlo Sciaccaluga. Una chiusura irrituale, eppure coerente con il clima espressivo che attraversa la scena lungo tutte le quattro parti – e gli otto quadri – di cui si compone quest’opera centrale della cosiddetta “trilogia popolare” verdiana.

Immerso nel fluido divenire di un cielo di nubi incombenti (proiezioni video di altissima qualità affidati a D-Wok), il dramma si dipana in una sorta di periferia postindustriale, dove trova posto anche un circo con i suoi grotteschi personaggi: una sorta di non luogo – elemento scenico centrale un grande e spoglio traliccio – che lascia intravedere in lontananza forse una città da cui si levano fiamme e fumo... un futuro distopico, oppure un presente che riassume in sé l’emarginazione di ogni tempo, di ieri e di domani, del resto gli zingari non hanno mai avuto vita facile... Il cielo magmatico è pronto a tingersi del rosso del sangue, della passione, dell’odio che attraversa la narrazione; e ad annullarsi “mangiato” da una sorta di inchiostro nero che ne divora le spire, per innescare nuove trasformazioni e bagliori di fuoco. Anzi, bagliori di guerra – amara attualità, la guerra come l’emarginazione; e perché allora il monastero in cui Leonora vorrebbe ritirarsi non dovrebbe trasformarsi in un ospedale militare, dove un esercito di saltimbanchi affronta gli sgherri del Conte di Luna in un finale d’atto straordinario, in cui la regia appare in tutta la sua forza, nella capacità di far propri il senso e il ritmo drammaturgico della partitura, di coglierne l’essenza espressiva. Livermore si dice musicista prima di tutto, e si vede.

Ma veniamo alla sostanza prima dell’opera: alla musica e al canto. Se l’Orchestra del Comunale, sotto la guida di Renato Palumbo, non certo un direttore alle prime armi – anzi, il suo debutto operistico, oltre quarant’anni fa è stato proprio con questo titolo – dà prova di ricchezza timbrica e piena efficacia nell’intreccio delle linee e dei piani sonori, alcuni tempi dei cantabili, impostati secondo un gusto un po’ retrò, appaiono eccessivamente lenti, col rischio di minarne la dinamica drammatica. Ma la qualità del cast rende trascurabili tali dettagli: dalla Leonora di Marta Torbidoni, elegante e persuasiva nel fraseggio e capace di una naturale agilità, al timbro corposo e all’intonazione decisa di Manrico, affidato a Roberto Aronica; dalla tempra e dalla precisione di Lucas Meachem nei panni del Conte di Luna alla forza espressiva con cui Chiara Mogini fa propria la parte di Azucena; fino al Ferrando del più che convincente Gianluca Buratto. Il pubblico non può che applaudire.

Susanna Venturi

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