San Mauro, salvato tra i cadaveri e sopravvissuto alla prigionia in Siberia: l’incredibile storia del soldato Giola

Ricostruita l’avventurosa storia di un disperso in guerra. I ricercatori di storia locale Mauro Rossi, Giuseppe Casadei e Giorgio Zicchetti hanno appena ricomposto la storia di Lavinio Lucchi, per tutti “Giola”, un sammaurese che ha vissuto un’esperienza incredibile. Ne passò di tutti i colori: molte parti della sua vita sembrano la trama di un romanzo.

Il soldato e la ritirata

Lavinio Lucchi era un soldato del “Comando Deposito 89° Fanteria Genova”. Nell’estate del 1942 era sul fronte russo del medio Don. Un totale di 230mila soldati italiani si trovarono a combattere in quella steppa una guerra che per condizioni ambientali e mezzi in dotazione fu un disastro. Il 19 novembre 1942 l’Armata rossa scatenò l’offensiva e i soldati riuscirono per circa un mese a resistere agli attacchi, pur con un rapporto d’inferiorità di 1 a 13. Alla fine, i sovietici riuscirono ad aggirare le truppe italiane, costringendole a fare una tragica ritirata. I soldati furono costretti a marciare con temperature fino a 40 gradi sotto zero, senza cibo, senza mezzi di trasporto e con un abbigliamento non idoneo.

Il 26 gennaio 1943 i soldati italiani giunsero allo scontro finale a Nikolajewka (oggi Malenka Aleksandrovka). Dopo 10 ore di combattimenti riuscirono a sfondare le linee nemiche. Ma dei 61.155 che avevano marciato dal fiume Don, solo 13.420 riuscirono a passare lo sbarramento.

Salvato da un’infermiera

Lavinio era lì a Nowo Kalitwa e dopo la battaglia il suo corpo era stato “ammassato” con quello di altri soldati morti. Ma un’infermiera russa si accorse che era ancora vivo, con “solo” un principio di congelamento ai piedi e alle mani, e se ne prese cura. Inizialmente lo accolse nella sua casa, dove lo curò; poi fu trasferito in un campo di prigionia. Purtroppo, per il congelamento, gli furono amputate tutte le dita del piede sinistro e una falange di un dito della mano sinistra.

Le notizie arrivate a San Mauro

Intanto, a San Mauro Pascoli era arrivata la notizia che Lavinio risultava disperso il 12 dicembre 1942 nella battaglia di Nowa Kalitwa. Essere dichiarati dispersi in Russia non lasciava speranze, ma la moglie, Ornella Galeffi, non voleva crederci. Il 28 ottobre 1942 aveva dato alla luce Anita e sentiva che Lavinio doveva essere vivo. Si rivolse ad una “stregona” di Rimini, una sorta di “sensitiva”, che emise il suo responso: Lavinio non era morto.

La scoperta: «È vivo»

Dopo alcune settimane, a San Mauro Pascoli si sparse la notizia che un soldato di Piavola, dato per disperso in Russia, era stato ritrovato. La moglie di Lavinio inforcò la sua bicicletta e andò a Piavola, sopra la frazione cesenate di Borello, distante più di 40 km da dove lei viveva, a incontrare la famiglia di quel soldato, per avere notizie del marito. Venne così a sapere che c’era un altro soldato romagnolo vivo.

La prigionia in Siberia

Nella seconda metà del 1943 arrivò a San Mauro Pascoli la notizia che Lavinio era vivo, ma detenuto in un campo di prigionia in Siberia. Dagli archivi sovietici risulta che, su 54.400 soldati italiani inviati in quei gulag, oltre 44.000 morirono. Ma dal 1945 i prigionieri italiani sopravvissuti iniziarono a rientrare in Italia.

Il ritorno a casa

Lavinio impiegò, per il viaggio di ritorno a San Mauro Pascoli, 40 giorni con la “Tradotta militare Transiberiana”, un convoglio ferroviario che passava attraverso la Mongolia e arrivava alla stazione di Cesena. Dopo anni, poté così abbracciare i suoi familiari.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui