Uno Bianca, i misteri da risolvere nella strage del Pilastro che uccise tre giovani carabinieri
BOLOGNA. I tre giovani carabinieri «quella tragica sera dovevano espletare una vigilanza fissa, così come disposto dall’allora questore con un’ordinanza di servizio, disposizione regolarmente riscontrata nel brogliaccio di servizio della caserma dei carabinieri». Dovevano presidiare «in modo statico» le scuole Romagnoli dov’era alloggiato un gruppo di extracomunitari. Il perché i carabinieri lasciarono «il delicato obiettivo da vigilare per recarsi lontano in via Casini, dove avvenne l’agguato», in un posto «completamente fuori dalla vista della scuola che dovevano presidiare, sembrerebbe un mistero». Ecco, nelle parole dei familiari di Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, i tre militari uccisi dalla banda della Uno bianca nella ‘strage del pilastro’ di Bologna il 4 gennaio del 1991, uno dei punti che resta da chiarire per una verità completa sui fatti di quella sera, come su altri che contraddistinsero i sette anni di terrore in cui imperversò la banda della Uno bianca. Lo evidenziano oggi, con un comunicato diffuso in occasione della cerimonia di commemorazione della ‘strage del Pilastro’. Ancora oggi, dunque, resta da «comprendere le ragioni del perché» i tre militari si spostarono, «e se quell’allontanamento fu determinato da un ordine superiore, cercando un riscontro nell’ordine di servizio della pattuglia, ma quel documento non fu mai rinvenuto, com’era accaduto per l’omicidio dei Carabinieri Stasi e Erriu, rispetto gli ordini di servizio relativi ai giorni precedenti la loro morte, anch’essi spariti nel nulla»Secondo i loro familiari, «i tre carabinieri non avrebbero mai abbandonato spontaneamente la vigilanza alla scuola Romagnoli, violando una consegna che avrebbe comportato anche una loro responsabilità per un eventuale attentato alla porta della scuola in loro assenza».
Si ricorda infatti che pochi giorni prima c’era stata «una bomba molotov, un’ipotesi assurda se si considera anche il clima di allora caratterizzato da violenti agguati ai vicini campi nomadi». Ma, quella sera del 4 gennaio, «per una strabiliante combinazione, tutte le pattuglie di polizia e carabinieri furono allontanate dal quartiere con interventi sui quali abbiamo chiesto approfondimenti», dicono i familiari dei tre carabinieri uccisi. L’«agguato premeditato» ai tre militari, continuano, non era «certamente indirizzato a impadronirsi delle armi dei giovani carabinieri trucidati, armi che peraltro non furono sottratte. I killer erano travisati e muniti di potenti armi, avevano già predisposto l’incendio della uno bianca con il cherosene per cancellare le tracce ed un’Alfa 33 con un loro complice alla guida, ad oggi rimasto sconosciuto, che garantì la fuga dei Savi dal quartiere Pilastro, probabilmente quel tragico incontro non fu casuale». Non solo. I parenti dei Carabinieri ritengono che «anche la dinamica della strage» sia “diversa da quella disegnata dalla corte di Assise del ‘97, così come attestato da numerose testimonianze e dalle perizie balistiche. La prima arma a sparare in via Casini angolo via Ada Negri fu la calibro 38 (e non l’AR 70), un’azione che disarticolò la pattuglia dei carabinieri colpendo ripetutamente l’autista per poi terminare la loro missione di morte una volta che l’auto dei militari impattò contro alcuni contenitori della nettezza urbana. Proprio uno di questi contenitori, dopo l’impatto, si posizionò di fianco alla portiera dell’autista della pattuglia dei Carabinieri, una condizione che prova l’incompatibilità delle traiettorie e delle tracce dei colpi calibro 38 esplosi sulla fiancata dell’auto dei Carabinieri nella fase finale dell’agguato».