Rimini. Traditore seriale la convince che è pazza. La moglie finisce in terapia

Rimini

“Pensi che io ti tradisca? Sei pazza”. “Sì, hai ragione, io e lei abbiamo una storia”. “Ma cosa dici? Io non te l’ho mai detto, sei tu che non capisci niente e ti sei convinta che io abbia un’altra”. A sentirselo ripetere dal marito per anni, ammissioni, smentite, confessioni e poi accuse, una donna riminese madre di famiglia ha finito per perdere davvero la lucidità, «dubitando di se stessa al punto da avere costantemente paura, da non credere più alle sue capacità, da non fidarsi più di sé, dovendo iniziare un percorso di psicoterapia per cercare di recuperare la situazione». A parlare è l’avvocata che l’ha seguita nel percorso di separazione giudiziale, Chiara Baiocchi (insieme all’avvocata Eufemia Ferrara), che racconta di una «donna distrutta da anni di disprezzo e manipolazione mentale, tanto che il comportamento del marito può essere riconosciuto come condotta maltrattante, venendo considerato elemento determinante nel chiedere - e ottenere - l’addebito nella separazione». Quello a cui fa riferimento la legale riminese è il metodo della cosiddetta “rana bollita”: «Il gaslighting - spiega - il rigirarti la frittata tanto da indurti a credere di avere davvero capito male, di esserti sbagliata, di non comprendere. Di essere pazza». Uno schema comportamentale, riferisce ancora la legale specializzata in materia, «che può avere ripercussioni gravissime sulla persona che è vittima di questo abuso emotivo e che nei casi peggiori può indurre anche al suicidio».

Come lo stalking

La riminese protagonista suo malgrado di questa vicenda, come racconta la legale a cui si è affidata, «sospettando da tempo che il consorte la tradisse, aveva iniziato a controllare il suo cellulare, scoprendo i messaggi tra lui (un imprenditore) e l’amante. Messaggi in cui i due si davano appuntamento per vedersi, e quindi abbastanza inequivocabili. Nonostante questo, però, lui riusciva a convincerla che non si trattasse di incontri romantici, ma che tra loro c’era solo un’amicizia, riuscendo a tranquillizzare la moglie fino a quando, qualche giorno dopo, non accadeva qualcos’altro e lui ammetteva candidamente di avere un’amante, visto che lei (la moglie) non valeva nulla e non capiva niente». Un comportamento, spiega ancora, «che replicava in numerosi ambiti della vita, fomentando violenti litigi al termine dei quali implorava la donna di tornare con lui, inducendola a credere che la ragione della litigata fosse solo colpa di lei, che, puntualmente non aveva capito o si era inventata qualcosa. Il risultato è fare vivere la vittima in una situazione di costante paura, come se fosse oggetto di stalking».

Condotte simili sono state equiparata dalla Corte di Cassazione a veri e propri maltrattamenti, che sussistono «non solo in caso di percosse o lesioni, ma anche quando la vittima subisce continue umiliazioni e atti di disprezzo o di offesa». Maltrattamenti che giustificano l’addebito in caso di separazione davanti al giudice.

Nel caso specifico, a convincere la donna a chiedere la separazione, un peso specifico lo hanno avuto le continue minacce di “portarle via” i figli, facendo leva sul fatto che lei non lavorasse e non avesse soldi. «Violenza economica - sottolinea l’avvocata - che si inserisce in un quadro di manipolazione mentale e narcisismo».

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