Rimini, Mapi Danna: “Nel mio podcast la forza dei più piccoli che insegnano la speranza”
«I bambini nati prematuri insegnano la speranza». Celebra i dieci anni dell’associazione “La prima coccola”, il podcast realizzato da Mapi Danna, al secolo Maria Paola Danna, scrittrice nonché autrice per tv, radio, web e formatrice.
Danna, come descriverebbe questo podcast ?
«Si tratta di un lavoro corale, una serie intitolata “Siamo tutti prematuri”, edita da Storielibere e scandita in due episodi podcast da 50 minuti l’uno più un documentario video».
Perché questo titolo?
«Perché prematuri lo sono questi bambini, ma anche le famiglie e gli operatori sanitari che ogni giorno si trovano a affrontare nuove sfide. Prematuri siamo anche noi, perché è sempre un’avventura misurarsi con il nuovo e l’inaspettato. Questo viaggio del resto mi ha cambiato per sempre perché ha una forte valenza metaforica ed è rivolto a qualunque genitore. Non siamo mai pronti a affrontare le prime volte dei nostri figli».
Cosa l’ha convinta ad affrontare questo tema?
«Tutto è partito da Marlú, il marchio di gioielli delle sorelle Fabbri che sostiene questa iniziativa e con cui collaboro da tempo, fra l’altro per il mio primo podcast “Scatenate. Libere dalle catene”. Questo brand attua una comunicazione molto potente sul piano sociale, dalla sostenibilità all’inclusione, basti pensare che nel talent scout Amici premia chi perde non il vincitore con il claim “Keep dreaming” (continua a sognare). Marta Fabbri ha avuto un bambino prematuro ed è fra le cofondatrici de La prima coccola, l’organizzazione che da dieci anni fornisce supporto materiale e morale a questi neonati e alle loro famiglie. Il podcast è dunque il nostro regalo per celebrare un fiore all’occhiello dell’ospedale Infermi di Rimini, ovvero la Terapia intensiva neonatale. Un dono che potrà essere usato come strumento di comunicazione con i genitori che all’improvviso diventano tali varando anche una campagna di sensibilizzazione. L’obiettivo? Far comprendere i mutamenti necessari all’architettura ospedaliera perché sia consentita la presenza h24 dei genitori. Per procedere bisogna tuttavia colmare un buco normativo: al momento infatti il bambino ha diritto alla vicinanza dei familiari in ospedale ma il neonato no. Tornando alla nostra avventura, con tutte le cautele del caso abbiamo varcato la soglia della Tin confrontandoci con la primaria, la dottoressa Gina Ancora e la responsabile delle infermiere, Natascia Simeoni che è una Nidcap trainer. Tradotto? L’approccio usato a Rimini cambia il protocollo della cura e mette al centro i genitori che non sono ospiti della struttura per due ore al giorno ma protagonisti h24 per ricreare gli stimoli sensoriali che il bimbo vivrebbe nella pancia della mamma. Una scelta che fa fiorire la sua maturazione cerebrale mentre prima si tendeva solo a farlo sopravvivere mantenendo un inevitabile gap con i coetanei».
Cosa si impara alla Tin?
«Il rispetto e l’ascolto. Un figlio che non è come l’avevamo sognato e lo devi amare per quello che è. Il che è anche più importante in un’epoca in cui i bambini sono visti dai genitori come una loro performance e vengono bombardati dalla chimera di una perfezione impossibile da raggiungere».
C’è una storia che l’ha toccato di più?
«Quella di un papà che si chiama Urbano e di Allegra, una delle sue gemelle, che oggi hanno 4 anni. All’improvviso a una settimana dalle dimissioni il polmone di questa bimba si è allargato spostando il cuore. Si era già preventivata l’asportazione dell’organo ma un’ora dopo l’emergenza era rientrata contro qualsiasi previsione. Urbano non sa tuttora cosa sia accaduto ma ricorda di essersi affidato. Non gli importa sapere il motivo ma solo che l’imponderabile puó accadere. La mano dell’uomo arriva sino a un certo punto e nonostante i passi da gigante della scienza c’è sempre un margine che può sorprenderci. La forza della speranza è il filo d’acciaio che lega queste vite. Non scorderò neanche la vicenda di una coppia che sta vivendo adesso la sua impresa: la figlia è nata prematura dopo appena sei mesi. Un fagottino di 600 grammi che ora, a peso raddoppiato, sembra un gigante».
Cosa accomuna queste famiglie?
«I bimbi nati prematuri fanno crescere a gran velocità i loro genitori che presto imparano che non tutto si può controllare ma che, anche se non comprendiamo fino in fondo quanto ci capita, dobbiamo trovare un senso ridimensionando tutto il resto. Sono tutte famiglie disposte ad accogliere, hanno compreso infatti che la gestazione è un lavoro di squadra e non finisce con il parto. Sono i figli a insegnare loro il valore della pazienza e l’importanza della lentezza».
In queste testimonianze affiorano mai sensi di colpa?
«In tutte ma poi questa tensione si scioglie senza gravare la relazione con i figli restando attivi, lucidi e non ripiegati su se stessi».
Cosa l’ha colpita di medici e infermieri?
«La capacità di ascoltare i genitori senza svalutarli, legittimando le loro paure senza mai dire come dovrebbero sentirsi. Con una certezza: la terapia arriva fino a un certo punto ma la relazione col genitore cura quanto il supporto terapeutico. È un reparto super tecnologico, la Tin, ma niente sarà mai potente quanto la voce o le carezze dei familiari. E c’è dell’altro».
Cioè?
«I bambini nati prematuri non possono reagire col pianto e fino a qualche anno fa la medicina pensava che non soffrissero. Quindi praticava loro cure invasive che causavano dolore e conseguenze anche a livello cerebrale. Oggi per fortuna si usa la sedazione».
Come reagiscono i fratelli maggiori?
«Non fanno caso ai tubicini che trafiggono il corpo del più piccolo, né si spaventano. Lo vedono tutto intero, il fratellino, e dicono alla mamma: “Guarda, è piccolo ma ha davvero tutto”».