Rimini. “Io, chirurgo lascio e tutto e giro il mondo con il mio van”
«Mollo tutto e parto in van». A quattro mesi dalla scelta che ha dato una scossa alla sua vita, il chirurgo ortopedico sammarinese, Matteo Ceccoli, prosegue il viaggio che trasforma la quotidianità in qualcosa di straordinario. È partito lo scorso 1 agosto, questo 35enne, imboccando la strada panamericana che si snoda dall’Alaska sino alla Patagonia, terra mozzafiato che, al momento, coincide con la sua meta finale. Fra due anni. La telefonata lo raggiunge mentre è negli States, a San Diego.
Ceccoli, perché quest’avventura on the road?
«Sono partito quando stavo meglio sia a livello professionale che sociale. Lavoravo nella sanità convenzionata di Bologna. Amavo (e amo) il mio mestiere ma, finito in un imbuto, lavoravo tutto il giorno caricato da enormi responsabilità. E questo, a mio avviso, non era uno scambio equo. Non sono fuggito, però, ci tengo a precisarlo. Credo infatti che se c’è un problema da risolvere, lo porti dietro ovunque tu vada. Quanto a me, mi ponevo le stesse domande dei colleghi 50enni. Da qui la decisione di fare i bagagli. Non volevo ritrovarmi a viaggiare a 70 anni, ammesso che ne avessi ancora le forze, ho scelto di farlo adesso. Ma sono partito con una certezza nello zaino: un domani il mio lavoro sarà sempre valido».
Ora è in aspettativa?
«Non sono in aspettativa né mi sono licenziato. Non vengo pagato ma conservo il mio contratto in forma “aperta”».
Il suo compagno di viaggio è un van. Ce lo descrive?
«È un Iveco Daily del 2003, 9 posti e 190mila chilometri, l’ho comprato in Veneto quando aveva già fatto il giro della penisola. Dopodiché smontandolo ho scoperto che era un bidone ma non mi sono arreso e i meccanici, a cui l’ho affidato, hanno fatto miracoli. È seguito l’allestimento dell’interno che ora conta un letto a due piazze, un frigo che non sfigurerebbe a casa, oltre al piano cottura con serbatoio d’acqua da 200 litri, un bagno e infine la doccia esterna».
I costi?
«Ho comprato il furgone a 3mila euro e ne ho spesi 8mila in officina, incluso un motore nuovo di zecca a cui ne vanno aggiunti 4mila per gli interni, dove tutti i mobili sono ricavati da legno di recupero. Il progetto e la realizzazione del van sono stati ideati assieme alla mia ragazza dell’epoca. Siamo partiti in due ma lei si è tirata indietro dopo aver attraversato il Canada».
Nei video che posta sui social mostra di risolvere i disguidi a colpi di nastro adesivo o supercolla. C’è mai stato un imprevisto?
«Arrivati sull’isola di Vancouver, sulla costa canadese che si affaccia sul Pacifico, ci ha tamponato un tipo ma l’assicurazione non ci ha reso giustizia. La collisione subita ha tranciato di netto i cavi del fanale posteriore. Così a forza di tentativi ho abbinato i fili colorati nel modo giusto per poi collegarli con dell’attrezzatura. Il pallino delle costruzioni, del resto, ce l’ho da quando giocavo con i mattoncini Lego».
Quale paesaggio finora l’ha colpita di più?
«I parchi nazionali, che ho visitato, ma anche l’isola Vancouver costellata com’è da foreste e montagne. Un vero paradiso abitato da orsi e balene. La stessa natura incontaminata l’ho abbracciata anche a Banff, sempre in Canada. Una tavolozza di colori per cui non basterebbe un vocabolario. Quanto al meteo è un saliscendi continuo che al Gran canyon ha toccato i meno 8 gradi».
Come hanno accolto la sua decisione parenti e amici?
«Di viaggi parlavo da così tanto tempo che si sono limitati alle solite raccomandazioni. Anzi, a dire il vero, ci sentiamo più adesso di quando abitavamo vicini».
Racconterà la sua avventura in un libro?
«Chissà! Per ora scrivo appunti, taccuino alla mano, e scatto foto a raffica».
Un oggetto indispensabile in questo percorso?
«La chitarra che ho comprato negli Stati Uniti».
Un viaggio in solitaria, il suo: più vantaggi o svantaggi?
«Più vantaggi. Ho lasciato la comfort zone mettendomi in gioco in cerca di nuove ispirazioni. Imparare a stare da soli non è mai banale».
Una storia che un altro viaggiatore ha condiviso con lei?
«A Las Vegas ho conosciuto un nativo americano della tribù dei Kiowa. Ha attaccato bottone mentre eravamo in un negozio di chitarre. Attendeva di partecipare a una convention dei nativi d’America. Domande sul suo popolo ne ho fatte in quantità mentre eravamo in fila alla cassa, e devo riconoscere la sua pazienza. A riprova della generosità riconosciuta ai Kiowa mi ha regalato il mensile della tribù e uno splendido poncho di lana fatta a mano. Ci conoscevamo da appena un’ora».
Una frase che non scorderà?
«L’ho sentita da un 50enne svizzero che vive in America da 25 anni, quando siamo finiti nella stessa area di sosta dove mi ha raccontato la sua storia. Un tempo era un uomo d’affari finché, una decina di anni fa, una vacanza in kayak, lungo il fiume Colorado, ha cambiato la sua vita. All’inizio la mente era impantanata nelle scadenze del lavoro finché all’improvviso il pensiero ha cominciato a vagare in libertà. Si è accorto, allora, che qualunque cosa facesse era al ritmo del fiume. Non c’era, ha pensato in quell’istante, nessun benefit al mondo per cui valesse la pena di vivere sotto i neon inchiodato a una scrivania. Così, nella luce dorata della vallata, è tornato a respirare».