Rimini, il chirurgo pediatrico Alberto Ratta: “Salvare la vita ai bambini è la mia benzina per andare avanti”
«Salvare la vita a quei bambini mi dà la benzina per trovare la motivazione e andare avanti ogni giorno, per entrare in ospedale e operare i piccoli che hanno bisogno di cure qui in Romagna». Alberto Ratta, medico riminese di 51 anni, specializzato in Chirurgia pediatrica, in servizio nell’area vasta di Ausl Romagna, lo mette subito in chiaro: «Nei Paesi del cosiddetto Terzo mondo si vedono cose in cui in Italia e in Europa non ci si imbatterebbe mai».
Condizioni terribili, legate soprattutto a malformazioni congenite che nei Paesi occidentali vengono individuate con le diagnosi prenatali e che quasi mai vengono alla luce. Ma anche abusi sessuali che, ben lungi dall’essere dichiarati come tali dai familiari, devastano totalmente gli apparati genitali di tante, troppe bambine.
Per dare il proprio contributo nella parte meno fortunata del mondo, il chirurgo riminese dal 2021 passa almeno due settimane all’anno come volontario nelle strutture ospedaliere dei Paesi in via di sviluppo partendo con la onlus Operareper di Parma, che da oltre 20 anni organizza missioni chirurgiche pediatriche. I luoghi in cui ha operato fino a ora, insieme a un’equipe di medici chirurgi, anestesisti e infermieri specializzati che utilizzano le proprie ferie per partire come lui da volontari, sono il Ruanda (alla University teaching hospital di Butare), il Bangladesh (al Santa Maria sick center di Khulna) e il Somaliland, Repubblica autonoma autoproclamata che corrisponde a alla Somalia britannica, operando al Mas hospital di Hargeisa, creato e gestito dalla onlus torinese Medacross. Il prossimo marzo sarà di nuovo in missione in Ruanda.
Dottore, perché in questi luoghi c’è così tanto bisogno di chirurgi specializzati negli interventi sui bambini?
«I medici chirurgi sono per la maggior parte impegnati in strutture private che hanno costi molto elevati, inaccessibili per la maggioranza della popolazione. Per i poveri quindi le uniche possibilità sono quelle delle strutture pubbliche, dove le cure e gli strumenti che hanno a disposizione sono di basso livello. E di chirurgi specializzati in Pediatria ce ne sono pochissimi, perché i casi di bambini da operare sono certamente meno degli adulti, ma si tratta di situazioni davvero complesse, che richiedono un altissimo livello di specializzazione, cure post operatorie e strumentazioni che nelle loro strutture sono quasi impossibili da trovare. In Ruanda infatti ci occupiamo anche di insegnare le nostre tecniche ai medici e agli infermieri locali, facciamo loro del teaching, in modo che i dottori dell’ospedale universitario possano apprendere e operare anche in nostra assenza».
Ci sono dei casi che le sono rimasti più impressi?
«In Somaliland abbiamo ricostruito completamente l’apparato genitale di una bambina di cinque anni che era stata abusata ed era devastata. L’intervento è durato cinque ore, se non l’avessimo operata sarebbe morta: non era più in grado di urinare e andare di corpo. I suoi genitori ci avevano fatto capire che era nata così, con una malformazione congenita. Capita spesso in questi Paesi, e non ti dicono mai chi è stato. Visitandola e parlando con lei ci siamo resi conto che quella devastazione non era una malformazione ma che era stata abusata, molto probabilmente da un parente. Abbiamo provato a denunciare al direttore sanitario, ma se non è la madre o il padre a farlo, è molto difficile. E i genitori non lo fanno mai. A livello di degrado sociale ci si imbatte in situazioni davvero sconcertanti, anche se la realtà è molto diversa di Paese in Paese.
In generale, in Somaliland devi avere la scorta armata per girare fuori dalla città, in centro ci muovevamo con una Jeep semi blindata. In Ruanda invece la situazione è molto più tranquilla, anche se è una semi dittatura è pieno di polizia, pur in assenza di diritti civili è un luogo sicuro».
C’è stato un momento in cui si è sentito realizzato nel profondo?
«Quando abbiamo operato dei bambini che avevano l’apparato genitale aperto, nati con questa malformazione, con la vescica, l’uretra rivolta all’esterno. Lì vengono operati anche a 3 o 8 anni, dopo aver vissuto girando con stracci intorno alla vita perennemente intrisi di urina, emanando un tanfo insopportabile e perciò costretti a vivere da emarginati. Per questo si tratta di un intervento capace di salvare loro letteralmente la vita.
Capita anche, però, che alcuni bambini non ce la facciano. Alcuni sono morti per colpa dell’assenza di assistenza post operatoria. Tra questi, una bimba morta per aver contratto la Dengue cerebrale dopo essere stata operata. I bambini nati prematuri invece molto spesso non sopravvivono, perché vere e proprie terapie intensive neonatali non esistono».
Qual è la motivazione interiore che l’ha spinta a dedicarsi a questo progetto?
«Lì riesco davvero a fare il mio lavoro, aiutando persone che hanno veramente bisogno. è una soddisfazione enorme, mi dà la benzina, la motivazione, per continuare a lavorare tutti i giorni. è il coronamento dello spirito professionale e missionario insieme. Io che ho famiglia e figli non potrei mai andare in Africa a lavorare stabilmente. La onlus mi consente di ottenere un buon compromesso e mettere il mio lavoro a servizio di tutti, e al contempo avere anche una vita familiare normale. Resta poi il fatto che i sorrisi e la riconoscenza dei familiari dei bambini a cui salviamo la vita sono impagabili. Quelle persone non hanno niente, eppure, se potessero, ti darebbero tutto».