Rimini, Don Stefano, sacerdote su due ruote: “Io tra Valentino Rossi e Jovanotti, l’inclusività valore al primo posto”



«Al primo posto c’è l’inclusività, il saper incontrare una persona con le sue esigenze e le sue storture. Gesù ci ha detto di amare in maniera incondizionata, a prescindere da ogni giudizio». Don Stefano Sargolini ha 41 anni e da 14 indossa la veste da sacerdote, guidando la parrocchia di Coriano. Se il proverbio dice che l’abito non fa il monaco, in questo caso invece, già a vederlo, dal suo “abito” don Stefano rivela il suo essere singolare, la sua diversità rispetto alla figura (forse un po’ stereotipata) del prete. La felpa col cappuccio con la zip aperta sulla t-shirt cattura inevitabilmente l’attenzione, evidenziando il volto di un uomo che tradisce il numero reale dei compleanni festeggiati. Don Stefano è per tutti il “prete giovane”, quello con la passione per Jovanotti e per le moto, quello con la Ducati parcheggiata tutti i giorni davanti all’ingresso dell’oratorio della chiesa di Coriano.
Don Stefano, partiamo dall’inizio. Perché ha scelto, come si suol dire, di “farsi prete”?
«A 18 anni avevo avuto questa intuizione, perché sentivo la necessità di una vita spirituale intensa, più di quella che percepivo nutrissero i miei coetanei. Insieme a questo avevo una forte vocazione al dedicarmi agli altri, al rendermi utile, a dare una mano a chi aveva bisogno. Certo, ci sono stati momenti in cui la mia motivazione è stata messa in crisi. “E’ proprio vero - mi chiedevo - che c’è bisogno di fare il prete per aiutare gli altri?” Alla fine, nonostante la presenza di alcuni dubbi, mi sono iscritto al Seminario, avevo 19 anni. Dopodiché ho avuto modo di rifletterci e nei sette anni di discernimento la mia convinzione si è irrobustita. E’ stata determinante l’esperienza a Sant’Aquilina, in una comunità di recupero della Papa Giovanni. In realtà all’inizio non ci volevo neanche andare. Pensavo che non facesse per me, che avere a che fare con persone che scontavano una pena, che avevano un passato di droga, con una storia così difficile alle spalle sarebbe stata troppo dura per il sottoscritto. Invece è stato l’anno più bello della mia vita. Ho scoperto la dimensione della vicinanza umana, che al primo posto c’è la persona. Aveva un senso, dunque, donare la vita agli altri, in un percorso di rinascita che mi dava la motivazione di fare quello che stavo facendo. Per questo ho capito che se fai il prete, al primo posto, ci deve essere l’inclusività, il saper incontrare una persona così com’è».
La Chiesa, però, mi permetta, per lungo tempo e ancora oggi, su alcune posizioni non si è mai dimostrata del tutto inclusiva, aperta verso ciò che veniva e che viene considerato “diverso”...
«L’altra dimensione di essere sacerdote è quella spirituale. Della celebrazione. L’aspetto prioritario è la comunione, non solo nella forma dell’Eucaristia, ma nel far sì che le persone si sentano in comunione l’una con l’altra e con Dio. Ecco il Vangelo in realtà è molto discreto, va poco a toccare gli ambiti morali, la Chiesa invece nel corso della storia è salita molto in cattedra. Il messaggio del Vangelo, di Gesù, è amare in maniera incondizionata. Questo è il mio modo di operare. Le mie prime confessioni sono state quelle in comunità, con i ragazzi che stavano facendo il loro percorso all’interno. Di fronte a certe cose, a certi vissuti, potresti essere spietato, basandoti sul “giusto” e sullo “sbagliato”. Devi mettere davanti un percorso di salvezza e di rinascita, contemplando la possibilità di andare fuori dalle regole. Non andare a messa, così come sulla sessualità in genere e sull’omosessualità».
A primo acchito, soprattutto per chi è lontano da una concezione canonica della Chiesa, questo approccio genera sorpresa e viene accolto molto favorevolmente.
«Sì, avvicina molto, ma allontana anche. Come era successo a Gesù, che è stato ucciso dai fautori di una religione retta e intransigente. Maturando però ho capito una cosa molto importante. E questo grazie a don Fiorenzo, scomparso da poco, che è stato la mia guida, il mio faro. Che non bisogna andare contro a prescindere. Che opporsi a uno schema, a uno stereotipo, a una rigidità, è giusto, ma quando serve. Se l’approccio è quello di voler scardinare una convinzione, di voler andare contro appunto a prescindere, a tutti i costi, allora è sbagliato. Si ottiene l’effetto di allontanare anziché avvicinare. Don Fiore, così lo chiamavo, mi ha fatto capire che l’unico motivo per andare oltre a certe prassi è essere vicini a quella persona che si vuole aiutare».
La sua parrocchia è sempre piena di giovani. E’ una cosa quasi straordinaria al giorno d’oggi. Qual è il suo segreto?
«Io non faccio niente, lascio fare. Mi dedico agli educatori e loro si dedicano ai ragazzi. C’è un’attitudine degli educatori che li rende più vicini ai giovani. Il segreto, secondo me, è che non tutto è nelle mani del prete. Gesù stesso diceva che la Chiesa è di tutti e ognuno poteva fare la sua parte».
Lei ha una t -shirt che riporta la frase di una canzone di Jovanotti: “E’ questa la vita che sognavo da bambino”. Allora le chiedo: è questa la vita che sognava da bambino?
«Un prete è una persona in mezzo alla gente, in cammino come tutti gli altri. Ci provo, a far sì che lo sia».