Rimini. “Così in una piccola barca ho attraversato il mare con mio figlio pagando 3mila euro e sono scappata dalla Tunisia e da un marito violento”
Ha legato le stringhe delle sue scarpe con quelle del figlio perché se la barca fosse affondata potessero morire assieme, stretti nell’ultimo abbraccio. La sua era una fuga non dalla miseria ma dall’inferno, per scappare da un marito violento che dilapidava i soldi al gioco e non le permetteva di curare il figlio epilettico. Zara ha 34 anni ed ha abbandonato la Tunisia con un bambino di 10 anni. È rinata due volte, dice, quando dopo un viaggio della speranza durato 24 ore, su una barchetta «che pareva un giocattolo, con un quindicenne al timone», ha avvistato il profilo dell’isola di Lampedusa. Era il settembre del 2023.
Zara, perché ha lasciato la Tunisia?
«Per sfuggire a un marito dispotico. Mi sono sposata quando avevo 19 anni, lui era mio cugino e all’inizio nulla lasciava presagire quanto sarebbe esploso in seguito. Finché, un giorno, lui ha iniziato a giocare d’azzardo e tutto è cambiato per sempre. Bruciava in poche ore tutti i miei guadagni di operaia in un’azienda dolciaria. Da allora si è spalancato un incubo a occhi aperti: minacce in punta di coltello, niente più medicine per nostro figlio Yied. Quando mio marito era ubriaco, mi rifugiavo spesso a casa di mio padre: la mamma non l’ho più da quando avevo 10 anni. Purtroppo però arrivava sempre il momento di rincasare perché la mentalità laggiù è tale da respingere anche solo l’idea della separazione tra coniugi. È stato inutile persino rivolgersi alle forze dell’ordine. Tutti erano gentili, certo, e hanno provato a parlare con l’uomo con cui condividevo tutto, anche il mio datore di lavoro ha tentato, ma una volta ottenuto il mio perdono, il copione si ripeteva da capo. Così, un giorno ho deciso di farla finita con un’overdose di farmaci. Ero già morta dentro, tanto valeva farla finita sul serio. Mi hanno riacciuffata per un soffio».
Ci racconta la sua fuga dall’inferno?
«Senza confessare i miei propositi a nessuno, ho preso Yied per mano e mi sono diretta al mare. Negli anni ero riuscita a racimolare, una moneta alla volta, 3mila euro: il prezzo del nostro biglietto per un’altra vita. Per non destare sospetti in mio marito non ho portato niente con me, neppure un giocattolo per il mio bambino. Sulla barca ho legato le stringhe delle scarpe di Yied alle mie pensando che, se fossimo morti, almeno ci avrebbero trovati assieme. Speravo, se tutto fosse andato storto, in un’unica sepoltura, vicini per l’eternità. A bordo con noi c’era una trentina di persone di ogni età e provenienza, soprattutto uomini. Eravamo stipati come bestie. Per 24 ore non mi sono mai seduta tant’è che, sbarcata in Sicilia, mi sono ritrovata con la gamba blu. Mi concedevo solo brevi dormiveglia per poi risvegliarmi sulla spalla di un’estranea, spaventata e tremante come me, mentre Yied a tratti si appisolava raggomitolato sui miei piedi».
Il momento più difficile?
«Mio figlio aveva fame ma c’erano solo un po’ di latte e dell’acqua. Siamo passati dal freddo della notte che entrava nelle ossa al caldo torrido del giorno. Eppure non provavo nulla, dovevo vegliare sul piccolo, il resto non esisteva più. Come compagna di viaggio non è mancata la vergogna, soprattutto quando dovevamo fare i nostri bisogni ma un bagno non c’era. Poi, verso le 5 del mattino, quando pensavamo di avercela fatta, il mare si è ingrossato all’improvviso e abbiamo cominciato a imbarcare acqua. A quel punto, a bordo si è scatenato il terrore perché nessuno di noi sapeva nuotare. C’era chi gridava e piangeva, chi pregava e chi, partito già malato, si è accasciato tra i gemiti di tutti. Il silenzio raggelante sceso di lì a poco si è interrotto solo all’arrivo, spezzato da una pioggia di ringraziamenti diretti ad Allah».
Cosa ricorda dello sbarco?
«Il sapore dolce della brioche che ci hanno donato i volontari assieme al succo di frutta ma anche la doccia e i vestiti, nuovi e puliti, che ci aspettavano come un abbraccio».
In seguito dove vi siete diretti?
«In un primo momento siamo stati accolti a Rimini presso la casa della Croce Rossa di Santa Cristina. Da qualche tempo, invece, ci troviamo a Morciano in una casa famiglia che ha offerto un nuovo inizio a me e a mio figlio».
Come state?
«Tutti ci hanno riservato gentilezza. Yied, talvolta, soffre di crisi epilettiche e per questo problema in Tunisia veniva trattato come uno scarto. Invece adesso va a scuola canticchiando e per la prima volta, da quando ha memoria, si sente accolto dalle insegnanti e dai coetanei».
A chi va il suo grazie?
«In primis alla Croce Rossa che pensa a tutto, compresi i medicinali indispensabili al mio bimbo. Da parte mia non sto con le mani in mano, continuo a studiare l’italiano e seguo corsi di marketing, dopo aver lavorato per tutta la stagione negli alberghi. Quanto a Yied, sogna di diventare dottore».
Ha più sentito la sua famiglia?
«Non sono riuscita a contattare subito mio padre così, quando mio marito ha lamentato la mia assenza da casa, lui ha pensato che mi fossi uccisa con il bambino. Ora è felice per noi, allontana l’uomo che pretende il mio ritorno, sventolando un cambiamento che di fatto non ha mai percorso, e si è persino scusato per non avermi assicurato abbastanza sostegno. Non ce n’era bisogno però, ha fatto tutto quel che poteva. Mi ripete che adesso sono libera e io di questa libertà faró tesoro, mettendo a frutto le mie capacità per mio figlio e per la comunità che ci ha accolti, a braccia aperte».