Pm separato dal giudice. O dalla giustizia?
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Oggi, dopo il concorso e il tirocinio, i magistrati e le magistrate scelgono un ufficio requirente (pubblico ministero) oppure giudicante. Poi, entro nove anni, possono cambiare funzione, ma una sola volta, cosicché i passaggi, che non erano molti (fra l’1 e il 2% dei trasferimenti, fino a pochi anni addietro) sono diventati insignificanti. Lo 0,3%, meno di 30 all’anno, su 9.000 magistrati circa.
E allora perché tutta questa insistenza, energia, passione, dall’una e dall’altra parte?
Perché in gioco il potere giudiziario, e la sua autonomia, soprattutto dall’esecutivo. Questo obbiettivo non può essere indicato apertamente, ma è il punto di arrivo di un percorso che inizia proprio con la “separazione delle carriere”. Che si fonda, purtroppo, su una narrazione suggestiva, e su una serie di falsi miti. Come quello secondo il quale il Giudice, avendo a che fare con un “collega”, orienta la sua decisione influenzato dal rapporto. E quindi, per evitare brutte figure al PM che chiede la condanna, la infligge anche se le prove sono deboli.
I dati reali però, non quelli percepiti, non le “sensazioni”, dicono che la maggior parte delle indagini si chiude con una richiesta di archiviazione. E che solo la metà (circa) dei processi che si celebrano in tribunale finiscono con una condanna. Un’influenza davvero debole!
Due casi recenti lo dimostrano. A Palermo il pubblico ministero chiede di condannare Matteo Salvini a sei anni di reclusione nel processo Open Arms. Il tribunale lo assolve con formula piena. A Roma il pubblico ministero chiede l’assoluzione di Andrea Delmastro dall’imputazione di rivelazione di segreto d’ufficio, il tribunale lo condanna a otto mesi di reclusione.
Riservando a un’altra occasione le considerazioni sulle reazioni politiche, che indicano una vera e propria insofferenza nei confronti di chi applica il diritto secondo le regole del diritto e non secondo i desideri della politica, mi pare che la prova dell’autonomia e dell’imparzialità del giudice sia evidente. Già adesso, senza riforma.
Riforma che, come ha sostenuto con forza la senatrice Bongiorno in Aula, “non incide sui tempi e sull’efficienza della giustizia. Solo un ignorante può sostenerlo!”.
Perché il pubblico ministero deve restare nell’ambito della giurisdizione? Intanto perché “ce lo chiede l’Europa”, che raccomanda agli stati di favorire il passaggio da una carriera all’altra, carriere che sono considerate complementari e si arricchiscono a vicenda. Poi perché la pregressa esperienza di giudice innesta nel pubblico ministero un supplemento di equilibrio, così come nel caso inverso si beneficia di una dose di concretezza.
Il motivo principale risiede nel fatto che è vitale (si, vitale!) che il pubblico ministero sia preoccupato solo di applicare e far rispettare la legge, non di conseguire risultati diversi dalla giustizia. Non deve essere un “avvocato della Polizia”, come auspicava Berlusconi, perché il ruolo che la legge riserva all’avvocato è fare (ci mancherebbe altro!) gli interessi del cliente, non di perseguire la verità. Fuori dalla giurisdizione il pubblico ministero coltiverà rapporti quasi esclusivamente con le forze di polizia e sarà naturalmente portato a condividerne obiettivi e metodi.
E allora sarebbe bene porre ai cittadini una domanda.
Preferite che dell’indagine che vi riguarda, come accusati o come vittime del reato, sia un magistrato che si preoccupa solo di accertare la verità, secondo le regole, o che sia un magistrato che fa l’avvocato della polizia, che dipende, a seconda dei Corpi, dal Ministro dell’interno, della difesa, dell’economia?
La risposta, in realtà, non è la stessa: e dipenderà dalle relazioni che l’accusato potrà avere, per le più valide e legittime ragioni, con l’esecutivo e le sue articolazioni territoriali. I cittadini ordinari, specie i più deboli, non solo economicamente, non dovrebbero avere dubbi nello scegliere la prima opzione.
di Stefano Celli, vicesegretario generale Anm