«Primo, difendere chi lavora»

Rimini

ROMA. Non si è interrotta la campagna Meno giornali. Meno liberi, nonostante nemmeno nel Decreto cosiddetto “milleproroghe” il Governo abbia accolto l’emendamento che un folto gruppo di deputati di molti gruppi politici aveva presentato per dare un minimo di consistenza a un Fondo dell’editoria di fatto svuotato. Il rischio di chiusura nei prossimi mesi per quotidiani e periodici editi da cooperative e associazioni non profit ha coinvolto nel fronte associativo e sindacale anche il Sindacato lavoratori comunicazione della Cgil. Ne parliamo con Barbara Apuzzo, segretaria nazionale dell’area multimediale.

Il settore poligrafico di quotidiani e periodici cartacei è al centro di imponenti cambiamenti che stanno minando l’occupazione: come sta affrontando Slc Cgil questo drammatico momento della categoria?

«Lo sviluppo delle piattaforme multimediali, in grado di veicolare cultura e informazione, ha da tempo apportato importanti modifiche agli assetti del comparto dell’editoria, rappresentando una grande opportunità aggiuntiva, complementare, e solo parzialmente sostitutiva di altre forme tradizionali di comunicazione, quale ad esempio quella della carta stampata, destinata sicuramente a modificare i suoi contenuti, ma non certamente a scomparire».

Questa trasformazione avviene in un’epoca segnata da una profonda crisi strutturale che attraversa l’intero settore, il che rende oggi non più rinviabile una discussione sulle scelte strategiche che il Governo deve fare per rilanciare un comparto così fondamentale per la vita democratica del Paese.

«Da tanti anni si parla di una riforma dell’editoria che ridisegni meglio il settore e che dia regole trasparenti, eppure il tema non è stato mai realmente affrontato nella sua globalità. Noi siamo convinti che sia veramente arrivato il momento di attuare una riforma vera del sistema dell’informazione, che oltre alle radio e alle televisioni, comprenda tutte le piattaforme attraverso le quali si veicolano i contenuti editoriali, ivi compresa la carta stampata. Dal canto nostro, proprio per accompagnare questa trasformazione, siamo da tempo impegnati nella costruzione di un nuovo contenitore contrattuale che sappia raccogliere la sfida del cambiamento, garantendo le tutele dei lavoratori e la qualità dei prodotti, con un attenzione particolare anche per quelle figure professionali considerate “atipiche”. Cambiano i prodotti, cambiano i processi, quindi cambia il modo di lavorare, su questo siamo concentrati nella definizione delle nuove piattaforme contrattuali, consapevoli del fatto che i vecchi confini tra una mansione e l’altra sono diventati meno rigidi».

Quale tipo di innovazione tecnologica è accettabile a patto che sappia salvaguardare anche un’occupazione non precaria?

«L’innovazione tecnologica è di per sé fattore positivo, a patto però che a questa si affianchi un’adeguata formazione e/o riqualificazione del personale. Produrre informazione, così come produrre cultura, è una ricchezza per il Paese e per la democrazia stessa. Va da sé che la qualità del prodotto finale non può non essere al centro dell’attenzione, considerando che per produrre qualità è necessario avere le professionalità adatte a farlo. La precarietà non rappresenta mai la condizione ideale per raggiungere questi risultati. Un discorso a parte può essere fatto invece per quei lavoratori genuinamente autonomi, la cui professionalità e le cui competenze vengono messe a disposizione per precise funzioni in precisi momenti e per i quali stiamo facendo un ragionamento in termini di estensione dei diritti universali e di definizione dei compensi minimi».

Slc ha aderito alla campagna “Meno giornali. Meno liberi”: per quali motivi?

«Da anni Slc si adopera attivamente per chiedere una regolamentazione dell’intero sistema dell’editoria e di una legislazione che garantisca l’effettiva libertà di informazione e il pluralismo dei media, perché non c’è democrazia senza la garanzia che questi principi vengano garantiti. Considerato che il nostro Paese scivola oggi dal 49° al 73° posto sui 180 Paesi presi in considerazione nella classifica della libertà di stampa elaborata annualmente da Reporters sans Frontières, condividendo la sua posizione con il Nicaragua, è evidente che questa campagna non poteva non vederci schierati, in prima linea. Abbiamo recentemente sostenuto, durante un’audizione in Commissione Cultura, che chi propone l’abolizione del finanziamento pubblico all’editoria dovrebbe avere il coraggio di chiedere direttamente l’abolizione dell’articolo 21 della Costituzione. Il rapporto tra comunicazione e potere tradisce già una progressiva attenuazione dell’indipendenza dell’informazione, motivo per cui sosteniamo, ancora una volta, la nostra assoluta contrarietà rispetto a interventi che puntano a un disimpegno del governo a difesa e sostegno di un settore per il quale il mercato, da solo, non è in grado di garantire il pluralismo delle fonti e delle specificità editoriali e a rivendicare politiche d’insieme che affrontino e regolamentino in maniera compiuta le questioni sopra citate, a partire dal tema della pubblicità, per il quale va rivisto il tetto massimo per la concentrazione pubblicitaria, ridefinendone le percentuali e prevedendo a tal fine un’azione più incisiva dell’Antitrust. Il taglio 2013 e la perdurante incertezza sulle risorse del Fondo per l’editoria 2014 e 2015 stanno mettendo a rischio la sorte di oltre 122 testate quotidiane e periodiche edite da cooperative di giornalisti e poligrafici e anche da associazioni non profit, sono circa 200 i poligrafici di queste testate, oltre a 700 giornalisti e 1.800 collaboratori che potrebbero perdere occupazione e redditi. Il tempo è poco e sarebbe necessario un intervento sul Governo e Parlamento che dia una risposta anche sul terreno del lavoro. Alla crisi del settore, il governo ha risposto riducendo nel tempo, progressivamente, ma in maniera sempre più incisiva, il sostegno pubblico necessario per garantire il pluralismo dell’informazione previsto dalla stessa Costituzione, tanto da far passare le risorse del Fondo per i contributi diretti all’editoria dai 245 milioni del 2006 ai 95 del 2012, ai 47 milioni del 2013. Una cifra assolutamente insufficiente a scongiurare il rischio di chiusura per molte testate ed emittenti locali. Alla insufficienza di risorse, si aggiunge un clima di incertezza riguardo ai tempi per la loro erogazione, il che determina un contesto incompatibile con la necessità delle imprese di disporre di un quadro di certezze per le chiusure dei bilanci, determinando, sempre più frequentemente, casi di interruzione forzata delle attività. Tutto questo nonostante tutti gli attori coinvolti, sindacati in testa, abbiano collaborato per costruire un quadro di razionalizzazione e di maggiore trasparenza, in grado di definire criteri più rigorosi e selettivi di accesso ai contributi pubblici per evitare abusi e distorsioni nella loro destinazione. Eppure, nonostante le nostre insistenti e reiterate richieste, dettate dal fatto che questi mondi li rappresentiamo un po’ tutti, continuiamo ad assistere a interventi “spot” che tentano di affrontare singole questioni, a volte andando in direzione diametralmente opposta a quella che si renderebbe necessaria, continuando a ignorare il fatto che per salvare, rilanciare e modernizzare il sistema editoriale bisogna necessariamente guardare al suo complesso, costruendo politiche di raccordo tra il mondo dell’editoria e quello dell’emittenza».

Anche Gigi Pezzini di FisTel Cisl ha preso posizione su questi temi. Come pensa Slc Cgil di aggregare tutte le categorie dei sindacati confederali in quella che appare come una battaglia di principio per la democrazia e di metro per la garanzia del pluralismo?

«Sui temi del lavoro e su quelli contrattuali di questo settore siamo già accomunati dagli stessi obiettivi e sebbene ogni sindacato conservi le proprie sensibilità, la storia insegna che l’unità sindacale rende sempre più forti. Questo è il motivo per cui unitaria è stata ad esempio la nostra presa di posizione in audizione presso la VII Commissione Cultura contro la proposta di legge C. 1990 “Abolizione del finanziamento pubblico all’editoria”. Siamo certi quindi che non sfugga alle altre organizzazioni sindacali confederali l’importanza di questa battaglia che, lo ripetiamo, ci ha già visti affianco in diverse occasioni».

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