Mara Mussoni, cancer coach dopo la seconda diagnosi: “Il cancro non è una punizione. Per guarire serve un approccio proattivo”
Mara Mussoni, 50 anni, sammarinese, ha preso in mano la sua vita e la malattia, che ha dovuto affrontare per ben due volte, per trasformarsi e trasformarlo, il cancro, in uno strumento di rivoluzione dell’esistenza, in un’occasione per riavvolgere il nastro e «alleggerire i pesi dell’anima». Un percorso non solo spirituale, ma, nell’ottica della cancer coach, anche di supporto alla guarigione e all’efficacia delle terapie mediche, con cui non entra in contrapposizione.
Mara, di cosa si occupa esattamente come cancer coach?
«Io affianco tutte le persone che sono coinvolte direttamente e indirettamente dalla malattia, quindi sia il paziente che riceve una diagnosi di tumore o eventualmente di un’altra malattia importante, che il caregiver, cioè tutti coloro che si prendono cura e sono vicini al malato. Faccio anche formazione a medici, psicologi, farmacisti, naturopati, coach e counselor, per gestire la relazione di aiuto con il paziente in maniera efficace. Il compito principale è quello di cambiare prospettiva nei confronti della malattia. Noi abbiamo introiettato a livello di inconscio collettivo che la malattia è un evento tragico, drammatico. Fino a qualche anno fa, ma in realtà ancora, il tumore veniva chiamato “brutto male”, “brutta bestia”, “mostro”, “male oscuro”. Quindi così facendo abbiamo introiettato nel nostro sistema quanto la malattia sia una sfortuna, una punizione, una tragedia, qualcosa che non ci appartiene. In realtà la malattia è un evento ed è un passaggio anche fondamentale nella crescita evolutiva della persona, perché è attraverso le difficoltà che un essere umano scopre e potenzia le proprie risorse interiori. Per quanto doloroso, a volte è l’unico passaggio necessario per poter svegliare la coscienza, per intraprendere il viaggio di guarigione o di allineamento con l’anima. Quindi l’obiettivo è cambiare prospettiva nei confronti della malattia. Passare da vittima a essere partecipe e responsabile del proprio percorso di guarigione. Il coaching oncologico è il metodo che io ho creato per dare potere personale alla persona, per prendere in carico il proprio viaggio e contribuire alla buona efficacia delle terapie. Perché un atteggiamento proattivo e costruttivo inevitabilmente va a interferire con l’efficacia delle terapie, e consente di gestire al meglio ansia, rabbia, angoscia e paura, sentimenti che inevitabilmente si alimentano con la diagnosi.
Come secondo compito ho quello di andare a trasformare tutte le dinamiche disfunzionali che la persona ha con se stessa e con gli altri, nel non volersi bene nella maniera più funzionale possibile. Noi abbiamo imparato a proteggerci, a difenderci, reprimendo le emozioni e i pensieri per stare nel contesto sociale. Ma il nostro corpo in realtà non funziona così. A forza di sopprimere non contiene più la delusione, la rabbia o tutte quelle emozioni che invece hanno bisogno di venire fuori. Si tratta quindi di insegnare alla persona ad avere una gestione efficace delle proprie emozioni, in modo che si liberi e possa lasciare andare le dinamiche sabotatrici che ha messo in atto fino a quel momento».
Come ha deciso di iniziare questo percorso?
«Ho deciso e non ho deciso. Alla mia seconda diagnosi, quando mi ero già formata e avevo già visto questa strada come la mia possibile via di guarigione e di contributo al mondo, ho scelto di partire per questo progetto. Sono oltre dieci anni che porto avanti il metodo. Ho formato oltre 200 professionisti della relazione di aiuto».
In che cosa sente di essere particolarmente utile?
«questa attività è essenziale. Credo sia un percorso che dovrebbe essere reso obbligatorio, intanto come prevenzione primaria, e poi ovviamente dopo una diagnosi. Il coaching oncologico in breve tempo porta la persona a cambiare prospettiva e a reagire in maniera differente, e ciò significa risparmiare tempo, energia e sofferenza, oltre che ridurre lo stress, che in realtà non è altro che come reagiamo alle cose che ci accadono».
Quali sono le difficoltà più grosse che incontra nel percorso con i pazienti?
«Entrare nel vissuto, nell’anima, di una persona è un privilegio ma al tempo stesso una grandissima responsabilità. Entrando in relazione con una persona che si affida ai miei percorsi la cosa più difficile è quando accade, perché a volte succede, che una persona lasci il corpo (muoia, ndr) e quindi serve lasciarla andare. Fa parte del lavoro, non si può pensare che non possa accadere. Ho seguito anche diversi pazienti terminali, e anche una ragazzina di 15 anni, e quindi lì il compito è delicato, ma alleggerire il cuore, l’anima, di quella persona, anche se rimane poco tempo, è veramente tantissimo. Perché la persona ha la possibilità di arrivare al giorno dell’ultimo respiro essendo meno carica, avendo risolto alcuni conflitti che si portava dietro da più tempo».