“Io, ex giocatore cesenate squalificato per il calcio scommesse, ora sono psicologo e aiuto ad uscire dalle dipendenze”

«La cosa che all’epoca mi aiutò ad uscire fu la paura». Non ha remore Simone Montanari, ex portiere del campionato di San Marino, nel parlare dei suoi scheletri nell’armadio. Classe 1980, nativo di Cesena, i suoi trascorsi calcistici annoverano anni al Perugia, Arezzo, Viareggio ma anche tre coppe Titano vinte con La Fiorita e otto partite nei turni di qualificazione di Europa League.
Una carriera, la sua, stroncata da un’indagine condotta cinque anni fa nell’ambito del calcioscommesse sammarinese. E che, tra i 24 tesserati condannati, vide anche l’ex portiere. Squalificato per tre anni e nove mesi e condannato a pagare una multa di quasi 5mila euro, Montanari fu costretto a dire addio ai campi da calcio. Oggi lavora come psicologo in una clinica e in una casa di riposo, oltre ad operare come privato. Alla domanda su quanto abbia impiegato ad uscire dalla dipendenza, l’ex portiere risponde senza esitazione: «Due ore. La forte paura ha creato un impatto traumatico tale per cui ho smesso all’istante».
Montanari, cosa ne pensa di quanto sta accadendo a livello nazionale, con giocatori come Sandro Tonali del Newcastle e Nicolò Fagioli della Juve finiti nelle scommesse illegali?
«Mi sono trovato nella medesima situazione dei ragazzi coinvolti, perciò hanno tutta la mia comprensione. Non li giustifico, ma comprendo il loro stato d’animo. Sono finiti al centro di una bolla mediatica che ha ingigantito il tutto. È giusto che paghino, perché hanno trasgredito il codice di giustizia sportiva. Ma il termine “calcioscommesse” che molti adoperano è errato. Qui non ci sono partite truccate o risultati condizionati, quindi non c’è reato. E se non c’è reato non ci sono delinquenti. Solo persone da aiutare».
Qual è l’aspetto più grave della questione?
«Che non si consideri la situazione sotto il punto di vista clinico, e dunque umano. Quando si tratta di ludopatia, sembra che gli sportivi non possano avere una dipendenza. È come se a questi soggetti non fosse concesso di sbagliare. Se un calciatore dichiara di essere affetto da depressione, gli addetti ai lavori riconoscono il fatto che sia una situazione che capiti. Con la ludopatia, l’aspetto umano viene tralasciato. In più aggiungo: se avessero scommesso su altri settori, questo caso mediatico non si sarebbe scatenato. Il fatto che dei calciatori abbiano scommesso sul calcio è la cosa che ha maggiormente creato scalpore».
Ritiene di aver subito un trattamento simile?
«Anche noi, nel 2018, finimmo in un tritacarne che riguardava indagini più grosse. Essere stati accostati a situazioni che non ci riguardavano mi ha dato fastidio. Sarei voluto uscire dal mondo del calcio in modo diverso. A differenza di oggi, all’epoca non avemmo la possibilità di patteggiare o di avere sconti di pena, ma questo non è rilevante. Nella mia circostanza, l’aspetto di poter avere un disturbo o una patologia non venne considerato. Oggi invece si conviene sul fatto che questi ragazzi debbano essere aiutati».
In tutto ciò, come si colloca il suo lavoro di psicologo?
«I miei studi li avevo già iniziati durante la carriera calcistica. Non hanno influito tanto nel mio percorso di cura dalla dipendenza, quanto nel vantaggio di trovarmi dall’altra parte. Avendo affrontato la patologia, quando ho a che fare con pazienti ludopatici conosco perfettamente i meccanismi che si instaurano nelle loro menti. A riguardo ho sentito molti pareri scorretti. Non sono i soldi il motivo per cui questi calciatori giocano. Il denaro, per un ludopatico, non è un fine ma un mezzo. E non si tratta di una “malattia degli sportivi”. Può coinvolgere tutti».
Come si guarisce dalla ludopatia?
«Nel mio caso, la paura è stata un fattore determinante. L’essermi trovato in una situazione più grande di me ha avuto un impatto traumatico. Credo di averci messo due ore a capire in che caos mi trovassi. Sarà così anche per questi ragazzi. Nel caso di una terapia comune, la persona deve comprendere di avere un problema e recarsi da un professionista, perciò è un iter molto più lungo. E la terapia è fondamentale».
Come sfruttare l’esempio dei giovani calciatori?
«Li hanno messi alla gogna poiché l’immagine da ludopatici impedisce loro di essere assunti a modelli. Io credo invece che debbano continuare ad esser proposti come modelli, ma in un’altra accezione. Li farei andare nelle scuole per incontrare gli studenti, acconsentirei a fargli trasmettere la loro esperienza alle giovani generazioni. In questo modo verrebbero ammonite sui rischi legati alla ludopatia, e sul perché bisognerebbe rimanere alla larga dal gioco d’azzardo».