Riccione, Arianna Valentini: “I miei giorni con i profughi in Libano, impossibile dimenticare quei bambini”

Riccione

«Io, volontaria dell’Operazione Colomba: così aiutiamo gli ultimi della terra». Dal 2017 Arianna Valentini, 28enne riccionese, fa parte dell’Operazione Colomba, il corpo di pace gestito dalla Comunità Papa Giovanni XXIII che nel 1992 ha aperto presenze stabili in numerosi conflitti del mondo, raggiungendo oltre 30 Paesi.

Valentini, dove l’ha portata la sua scelta?

«In Libano, sin dal 2017, prima per periodi brevi e poi ritagliando un tempo sempre maggiore dal 2019 al 2021. All’epoca studiavo arabo a Trieste e ho conosciuto una famiglia giunta grazie a un corridoio umanitario organizzato dalla comunità di Sant’Egidio. Poi, quando ero alla fine del mio percorso come scout, ho sentito parlare dell’Operazione Colomba. Così ho provato a unire tutti i puntini, sostenuta da famiglia e amici. Ora, dopo la laurea conseguita nel 2022, lavoro a Rimini in un centro di accoglienza gestito dalla Papa Giovanni XXIII e torno in Libano per diverse settimane all’anno».

All’inizio su quale intervento si concentrava il suo impegno?

«Accompagnavo i profughi siriani attraverso il territorio libanese. Il Libano non ha ratificato la convenzione di Ginevra che tutela i rifugiati di guerra e quindi non ne riconosce lo status. Motivo per cui scortavamo queste persone in vari luoghi, dall’ospedale alla sede dell’Onu a Tripoli (da non confondere con l’omonima città della Libia) finendo così sotto la lente dei check point militari. Al controllo dei documenti tutti i siriani, ma in particolare gli uomini, rischiavano l’arresto. A disinnescare la tensione provvedevamo noi, grazie ai volontari che parlano l’arabo».

Ha mai avuto paura?

«I volontari vivono le stesse emozioni di chi fugge dall’inferno e con loro condividono spazi e criticità nel campo profughi. Finché sono rimasta in Italia, ad esempio, non ho mai avuto paura dei militari ma, giunta in Libano, la percezione si è rovesciata».

Una storia che l’ha colpita?

«Non dimenticherò mai i bambini che, una volta arrivati in Italia tramite corridoi umanitari, sono felici di andare a scuola o chiedono ai genitori se stanno sognando perché non sentono più cadere le bombe. Ma i più vulnerabili sono gli anziani che, scappando dalla guerra, hanno perso qualunque certezza e i ricordi di una vita. In un campo profughi si percepisce una realtà molto soffocante, a tratti claustrofobica. Da quando è caduto il regime di Assad, la situazione è tuttavia migliorata, anche se molti siriani non possono comunque tornare in patria, avendo perso tutto, anche la casa. Dal 2011 in diverse città del Libano si è insediato il commissariato dell’Onu per i profughi che dispensa carte mensili ricaricabili per pagare il cibo o aiuti per il trasporto scolastico. Ma adesso sta riducendo i ristori. Altre associazioni garantiscono infine cure mediche e odontoiatriche».

Quanti sono i siriani in questo limbo?

«Fino a qualche anno fa si parlava di un numero variabile tra un milione e un milione e mezzo di persone a fronte di 6 milioni di libanesi. Adesso, ma la cautela è d’obbligo, alcune fonti contano mezzo milione di rifugiati».

In un campo profughi esistono svaghi?

«Dipende dai momenti e dalle risorse disponibili, ma spesso si organizzano spettacoli o laboratori creativi per i bambini. Basta un quaderno o una scatola di pennarelli per vederli sorridere».

Come si vive in una tenda?

«Sono strutture di lamiera ricoperte da cartone e teli di nylon: è difficile abitarvi sia d’inverno quando nevica o piove allagando tutto, sia d’estate viste le temperature che raggiungono i 40 gradi».

Consiglierebbe quest’esperienza a un giovane?

«Fin da piccoli guardiamo la guerra in tv, come fosse un’esperienza che non ci riguarda. Crescendo, invece, si può dare il proprio contributo per la pace in varie parti del mondo, dall’Africa all’America Latina, declinando il progetto a seconda delle proprie caratteristiche».

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