Lucio, il riccionese che salva le balene in Messico
In soccorso delle creature marine da salvare.
Una vita nel blu quella di Lucio Conti, 47enne originario della Perla, ora residente a Puerto Vallarta in Messico, fin da quando era solo un giovane volontario negli acquari di Cattolica e della sua città.
La storia
«Lavavo vasche e secchi, ma era in un ambiente stimolante collegato con la Fondazione cetacea, amavo fare il tuttofare lì, finché un’addestratrice mi propose di seguirla in Messico». Era il 1999 e Conti finì al timone di altre avventure, dedicandosi ai mammiferi marini in centri di interazione e acquari. Poi dal 2017 una parentesi prima a Dubai ed a seguire in Cina. Al ritorno in Messico, nel 2019, lo attendeva il ruolo di direttore generale nei parchi di Adventures group, mentre si integrava alla Raben (Red de asistencia a ballenas enmalladas) in prima linea nei salvataggi di mammiferi impigliati in reti da pesca. Operazioni che, dati alla mano, richiedono fino a tre imbarcazioni, dai 10 ai 15 professionisti, 300 litri di benzina e almeno 5 ore di lavoro per un costo minimo di 3mila euro. Ma la passione alla fine ha la meglio su tutto, come ribadisce, con tante le soddisfazioni mietute nel frattempo.Conti continua a studiare e tra master e specializzazioni, ha imparato 4 lingue (spagnolo, inglese, francese, portoghese), infine ad agosto è stato insignito del titolo di “ambasciatore di Riccione nel mondo” dall’assessore al Turismo Stefano Caldari.
Le ultime imprese
«Di recente abbiamo salvato un leone marino di una specie rara – dice con soddisfazione -. Ma solo quest’anno a spiaggiarsi sono stati 4 esemplari, segno che qualcosa non va». Tanto più perché «sono giunti allo stremo - ricorda – e le ossa si vedevano sotto la pelle. Infatti hanno nuotato verso sud per settimane in cerca di cibo». La causa? «L’eccessivo sfruttamento marino da parte degli uomini», chiarisce tout court. Ma tutto è bene quel che finisce bene. E dopo due mesi Rafa, questo il nome imposto al pinnipede, ha ripreso la via dell’oceano. Per un esemplare come lui di «circa 10 anni il peso normale sarebbe 110 chili - nota Conti - ma all’arrivo ne pesava 58, tant’è che lo abbiamo liberato solo quando ha sfiorato quota 80».Lieto fine anche per la balena che da mesi aveva 240 metri di corda impigliata tra la pinna pettorale e la coda. «Solo l’anno scorso ne abbiamo liberate 11 - rammenta-. Tutte con solchi e tagli nella pelle che fuoriusciva ormai dalle maglie». Liberata il 15 dicembre, dopo un lavoro certosino di 3 ore, ha iniziato a saltare con foga. Un gesto che i cetacei compiono, anche per uccidere i balani, parassiti che le affliggono sulle estremità, dando forte prurito, «ma che - sottolinea il re degli sos con un sorriso – si può interpretare anche come un sonoro grazie». Fra le sue regole di base le tempistiche: «Se inizi un salvataggio devi finirlo in giornata, sfruttando le ore di luce».
Ma soprattutto la sicurezza: «Nessuno deve entrare in acqua – spiega –. Un minimo contatto con esemplari dal peso di più di 30 tonnellate e lunghi oltre 16 metri può innescare rischi enormi, specie durante le manovre di soccorso».
Che si dividono in varie fasi. «Si parte marcando la balena con una boa attraverso un “grampino” – precisa - che s’aggancia alla rete che la imprigiona. Si tratta di una piccola ancora, attaccata a una «corda di 30 metri con una grande boa, a cui se ne aggiungono altre». Lo scopo è stancare la balena perché non possa sommergersi troppo in profondità. Poi ci si avvicina con un gommone, «disincagliando le maglie con attrezzature che non danneggino la pelle del malcapitato». È il 64esimo gigante del mare «restituito alle onde negli ultimi 6 anni», rimarca il direttore, sicuro che la battaglia in difesa di madre natura non finirà qui.