Sama: «Io, l’impero Ferruzzi e Raul. Ecco la mia verità. Lo devo alla mia famiglia e a Ravenna»

Ravenna

Scrivere un libro per tornare a casa. Per riappacificarsi con il passato, con la sua famiglia e con la sua città, Ravenna, che di quella epopea che appassionò i salotti e le borse di tutto il mondo - alternando splendori e dolori - resta ancora, incredibilmente, il suo fulcro.

Carlo Sama, in un ridotto dell’Alighieri gremito, lo dice apertamente: «Conosco le regole della provincia - ammette -. So che se non sei onesto, la provincia non ti perdona. E in questo libro c’è la nostra verità». Pausa. «E credo che sia anche la verità».

A 76 anni l’ex manager del Gruppo Ferruzzi, marito di Alessandra e genero di Serafino, il fondatore del gruppo, sceglie la sua città natale per la presentazione del libro di memorie: “La caduta di un impero, 1993: Montedison, Ferruzzi, Enimont” (Rizzoli Editore).

Lo fa con un intervista dai toni quasi intimi, ma mai retorici, a tu per tu con Agnese Pini, direttrice di Qn. In prima fila la sua famiglia, tra cui la moglie Alessandra, ma anche figure chiave di quel periodo, come Sergio Cusani, altro nome simbolo della stagione di Mani Pulite; uno dei pochi ad aver ammesso tutto e pagato tutto.

La verità di Sama non può che partire da chi quell’impero lo fondò e gli diede il nome: Serafino Ferruzzi. Un video ripercorre le tappe di quella storia imprenditoriale unica del dopoguerra. Poi Sama riprende il microfono, ma la sua voce si spezza per l’emozione. Ricordando Serafino, ma anche suo cognato Arturo, recentemente scomparso: «Glielo dovevo» dice.

«Mio suocero era un uomo animato da un’umiltà incredibile - racconta Sama -. Tanto che l’Italia, nonostante fosse un imprenditore di successo internazionale, lo conobbe di fatto solo il giorno della sua morte (per un incidente aereo ndr). Potrei raccontarvi tante cose su di lui. Ne scelgo una: la borsa di Chicago nella sua storia si è fermata solo due volte. La seconda l’11 settembre del 2001 per le torri gemelle, la prima per rendere omaggio a Serafino Ferruzzi, il re della soia. Una persona che considero, insieme a Enrico Mattei, uno dei padri della nostra Repubblica». Entrambi accomunati dallo stesso destino.

Ed è qui che, in quella storia, irrompe un altro nome. Anzi, il nome: Raul Gardini. Comunque la si pensi a riguardo, Sama ne tratteggia un profilo dove a prevalere sembra un affetto sincero e un‘umanità che stride con la narrazione storica e giornalistica dominante.

Anche per lui Sama parte dall’inizio, dal Raul “abbronzato e già famoso, sulla sua auto rossa in piazza del Popolo, amante della vela e del gioco d’azzardo”. Un uomo visto come un mito adolescenziale per un ragazzo come lui che - e lo racconta con grande modestia - si era « avvicinato alla “real casa” come fornitore di articoli per la pulizia, ai tempi in cui Google non esisteva».

Una stima reciproca, fino alla proposta che Raul gli fa per entrare in una società immobiliare. «Ma io non ho soldi» Risponde il giovane Sama. «Se hai la volontà, quelli non sono un problema» ribatte Raul. Parole che sono insegnamento e profezia.

Poi arriva l’affare Montedison e la scalata Enimont. «Sfide imprenditoriali dalle quali - spiega Sama - un giocatore come Gardini non si sarebbe mai alzato dal tavolo da sconfitto».

Ma le scorie di quelle scalate e i debiti del gruppo portano come noto a una rottura imprenditoriale e umana mai sanata. Anche perché in quell’Italia, ricorda Sama, il clima intanto è cambiato. Anzi, per dirla con un’espressione di craxiana memoria, “il clima è infame”. «Sentivamo il tintinnare delle manette. Per noi che avevamo figli piccoli fu terribile». E Sama ricorda anche il suo primo interrogatorio con Di Pietro. «Entrai in uno stanzone enorme, pieno di belle assistenti e poliziotti. In mezzo c’era lui. Sembrava Brad Pitt. Si avvicinò dandomi del tu e chiedendomi di accusare Cusani e Gardini. Solo a Ravenna - aggiunge - dovemmo difenderci da 156 capi d’accusa. Ma fummo assolti con formula piena».

Ricorda, poi, anche un tentativo di riavvicinamento a Ginevra con Gardini (e qui lo chiama stranamente “dottor Gardini”) che sembrava un primo passo per un ritorno a casa. «Salvare la famiglia - dice Sama - per me era diventato più importante che salvare il gruppo. Arrivai a proporgli un patto: tutto il gruppo per una lira. Tu lo risani e poi ridividiamo le quote. Mi disse che ci avrebbe pensato. C’era una banca che ci avrebbe aiutato: la Goldman Sachs e un advisor di garanzia: Prodi». Ma la verità di Sama vede un altro banchiere mettersi in mezzo: Enrico Cuccia. Che con il “dottor Gardini” aveva un conto in sospeso. Poi racconta di un altro incontro nello studio dell’avvocato De Luca, a Milano. Lo stesso legale che la mattina di Sant’Apollinare del 1993 avrebbe dovuto accompagnare Gardini da Di Pietro per un interrogatorio che purtroppo non si tenne mai.

«Tornando indietro, c’è qualcosa che non rifarebbe?» Chiede Pini a bruciapelo. «Ho fatto centinaia di errori. Ma rifarei tutto, perché ho vissuto una vita straordinaria ». Una risposta di quelle che sarebbero piaciute anche al dottor Gardini.

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