Ravenna, uccise la figlia buttandosi dal palazzo: rinviata a giudizio ma non è imputabile

Ravenna

RAVENNA. Vivere sapendo di avere ucciso la cosa più cara al mondo. Vivere a dispetto del vano tentativo di farla finita. «Una condanna». Giulia Lavatura Truninger lo aveva detto fin da subito nel corso dell’interrogatorio, prima ancora di essere giudicata totalmente incapace di intendere e volere. Una valutazione psichiatrica unanime, sulla base della quale la 42enne ravennate risulterebbe non imputabile, seppure socialmente pericolosa. Il processo che la vede accusata di omicidio volontario aggravato per avere ucciso la figlia di 6 anni Wendy l’8 gennaio 2024, gettandosi insieme a lei dal nono piano del palazzo in cui abitavano, in via Drad 39, dovrà necessariamente passare dalla Corte d’assise.

Si tratta di una questione meramente tecnica. Il codice di procedura penale prevede infatti che qualora esista una causa che estingue il reato o la persona non sia imputabile, il giudice non può pronunciare una sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento debba seguire anche l’applicazione di una misura di sicurezza. E’ proprio questo il caso: la madre 42enne, ritenuta infatti potenzialmente pericolosa, sarà sottoposta alla libertà vigilata, dopo avere passato gli ultimi mesi agli arresti domiciliari alla clinica Villa Azzurra di Riolo Terme. Per questo motivo ieri il giudice per l’udienza preliminare Janos Barlotti ha disposto il rinvio a giudizio. Sarà la corte composta da due giudici e dalla giuria popolare a chiudere definitivamente il processo.

Il dramma di via Dradi

La vicenda riporta indietro all’inizio dell’anno scorso, appena concluse le feste natalizie. Il dramma si consumò prima dell’alba, alle 7.15. Era un lunedì mattina. Da circa un mese la 42enne aveva smesso di prendere i farmaci prescritti dal Centro di salute mentale. Era seguita da anni per un disturbo bipolare della personalità e mancavano pochi giorni all’appuntamento per una nuova visita da un terapeuta che l’aveva visitata durante la gravidanza. Il marito stava ancora dormendo, alle 6.50, quando lei si alzò per pubblicare su Facebook un lungo post di sfogo fra pensieri e turbamenti. Lo aveva preparato da giorni, dopo aver maturato poco prima di Natale l’idea di farla finita, portando con sé le cose più preziose che aveva, la figlia e la loro barboncina. Wendy era ancora nel letto; la strinse tra le braccia, legandosi anche la cagnolina alla cinta, per poi uscire dalla finestra, sull’impalcatura del cantiere edile che inscatolava tutte le facciate del palazzo. Da qui si lanciò nel vuoto.

Non andò come previsto. Il volo non lasciò scampo a Wendy e al piccolo animale domestico. La 42enne invece finì contro la tettoia posta a protezione dell’ingresso del palazzo, cavandosela con lesioni tutto sommato limitate. Eccola la condanna, di cui lei stessa parlò nei giorni seguenti.

Perizie psichiatriche

Le indagini condotte dalla Squadra Mobile e coordinate dal pm Stefano Stargiotti, avevano valutato l’intero contesto delle visite specialistiche alle quali la donna era stata sottoposta nel corso degli anni. Era stata ritenuta necessaria anche una perizia psichiatrica affidata dal gip al professor Gabriele Braccini di Roma, le cui conclusioni sono risultate in linea con quanto valutato dalla consulente della Procura, la professoressa Anna Palleschi di Padova, e con l’analogo accertamento eseguito dal professor Renato Ariatti di Bologna, scelto come consulente di parte dall’avvocato Massimo Ricci Maccarini, difensore della 42enne.

Ormai scontato l’esito del processo, destinato a chiudersi con un proscioglimento. Ma date le circostanze, il giudizio dovrà essere pronunciato in un pubblico dibattimento.

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