Ravenna. La culla per la vita resta vuota
Ester Pompili cammina lungo il borgo di Cervia, diretta nell’ufficio comunale con un neonato in braccio. Si chiama Guerriero. Anzi, si chiamerà Guerriero perché quel bambino è nato da poche ore e la mamma ha dato ad Ester l’indicazione del nome. Poi le ha detto di portarlo in Comune. La donna entra in ufficio, compila un modulo, lascia il bambino ed esce. Ester fa questa operazione diverse volte ogni anno e chissà se per lei ormai è una questione poco più che burocratica o se durante quella camminata guarda negli occhi quei bimbi, destinati al Brefotrofio di Ravenna. È difficile da dire, perché i tempi di Ester sono lontani dai nostri: è il 1878, e lei fa la levatrice. Sono decine i bambini che ogni anno le levatrici del XIX secolo portano alle istituzioni dopo averli fatti nascere in casa. Neonati che poi si affidavano ai brefotrofi. Quello di Ravenna ha una storia pluricentenaria, è risalente al XVI secolo, e si trova all’ospedale cittadino, il Santa Maria delle Croci.
Quell’anno, il 1878, è storico perché il 31 dicembre verrà soppressa la ruota degli esposti dove venivano lasciati i neonati. Pochi di loro superavano i tre mesi di vita, pochissimi arrivavano all’età da militare. Ogni anno lo Stato, pontificio prima, italiano poi, bussa alle porta dell’istituto per chiedere le liste degli “ex neonati” che in quel momento dovrebbero essere 19enni per richiamarli alla leva. Lo fa anche nel 1878. La contabilità, per l’occhio contemporaneo, è terribile: dei 23 accolti nel 1859 soltanto sei hanno raggiunto i 12 anni, età in cui dovevano trovarsi un lavoro ed uscire dall’istituto. Per le classi successive non va molto meglio: 7 sopravvissuti su 23 nel 1860, 5 su 20 nel 1861.
Le carte sul Brefotrofio sono conservate all’Archivio di Stato di Ravenna che una decina di anni fa ha anche realizzato una mostra sul tema. Secondo quanto risulta, dal 1892 al 1901 su 394 bambini ne sono morti 214. Di questi, solo in 45 hanno superato il primo anno di vita. Tra le cause troviamo spesso disturbi che oggi danno preoccupazioni e grattacapi ai genitori ma che un tempo erano causa di morte: infezioni gastrointestinali, bronchiti. E poi naturalmente malattie terribili come la tubercolosi, la sifilide, o circostanze come l’insufficiente nutrizione. L’antichissimo istituto era gestito dalla Congregazione della Carità, con lo Stato unitario venne poi supervisionato dall’amministrazione provinciale.
La ruota dove venivano lasciati gli esposti si trovava nella sede dell’ospedale, il cui edificio ai tempi era tra l’odierna via Guaccimanni e il quartiere Sant’Agata, poi fu spostata a San Giovanni Evangelista. Nel 1878, quando fu chiusa dal Consiglio Provinciale, era lì. Al suo posto viene aperto un «ufficio di presentazione» in ospedale, attivo dal primo gennaio del 1879. Aveva un campanello alla porta dell’edificio e «personale a tutte le ore del giorno e della notte». Ai bambini le madri lasciavano dei segni, anch’essi presenti in Archivio: pezzi di stoffa, piccole medaglie rotte a metà, carte da gioco, libretti di preghiera.
Le carte in Archivio contengono contabilità, relazioni, regolamenti. E dentro ci sono loro, le storie degli esposti ma anche quelle delle levatrici, delle mamme, delle nutrici e delle famiglie cui il Brefotrofio affidava i bambini. I maschi fino a 12 anni, le bimbe fino a 15. Alle balie veniva dato un compenso ma ciò comportava anche un controllo sulla salute dei piccoli, diretto ma anche indiretto: sono tantissime le segnalazioni di bambini «maltenuti» da parte dei compaesani. C’è ad esempio il caso di una balia a cui vengono tolti tre bambini perché accusata di frequentare «i mariti altrui». Lei scrive, disperata, all’Istituto per riaverli.
In un contesto di povertà, le storie più belle sono però quelle a lieto fine: i ricongiungimenti. Sono quei segni lasciati insieme al neonato ad essere decisivi per riconoscerli. I bambini venivano lasciati nella ruota o in ospedale per i motivi più disparati: nati fuori dal matrimonio, povertà, figli illegittimi. Quando il problema si risolveva, magari perché l’unione era stata ufficializzata con un matrimonio, si scriveva al Brefotrofio che riconsegnava il bimbo dopo aver preso informazioni sulla madre dal parroco. Spesso però la lettera di raccomandazione del prete era allegata direttamente alla richiesta. Ogni bambino ha naturalmente la sua storia. Alcune raccolte in grossi faldoni come quella di Luigia Casadio, destinataria di una cospicua eredità - lasciata dal padre che non aveva potuto riconoscerla - ed entrata in istituto nel 1855. Anni dopo, in procinto di maritarsi, chiede al Brefotrofio di fare i conti di quanto le spetta. Sottratte le spese sostenute per il suo mantenimento, annotate con minuzia dall’istituto, e alcuni crediti evaporati per la gestione dell’eredità da parte della moglie del padre, rimane comunque una bella somma: 4.444 lire. Si consideri che l’istituto dava una dote di 133 lire alle orfanelle al momento del matrimonio. Le zitelle non riconosciute restavano a prestare servizio in istituto mentre i maschi trovavano lavoro all’esterno. Ma il legame con il brefotrofio rimane per sempre: Pasquale Casadio ha circa 63 anni quando il colono presso cui lavora scrive all’istituto. Da quando si è ammalato di pellagra, racconta, ha avuto problemi psichici e non è più capace di badare a se stesso. Né utile al lavoro. Si prega così l’istituto «di far mettere in un luogo di ricovero questo infelice». La storia del Brefotrofio, tra alterne gestioni, durò fino al 1966 quando fu creato l’Istituto Provinciale dell’Infanzia. A ricordare la sua presenza, oggi, sono soprattutto i cognomi di tante persone, discendenti dei trovatelli che ce l’hanno fatta.