Faenza: «Il macellaio è stato assassinato». L’ex vigile a processo con un complice

Ravenna

Più che un sospetto. Ci sono elementi il cui peso specifico sposta l’ago della bilancia verso uno scenario inquietante: che Domenico Montanari, macellaio faentino morto impiccato nel laboratorio della sua bottega all’alba del 25 luglio del 2019, non si sia tolto la vita ma sia stato ucciso. E che gli assassini, oltre a premeditare il delitto, abbiano inscenato un suicidio per depistare le indagini. A tratteggiare il quadro accusatorio, questa volta, è direttamente il giudice per le indagini preliminari Janos Barlotti, che a fronte della richiesta di archiviazione presentata dalla Procura, ha disposto invece l’imputazione coatta nei confronti di Gian Carlo Valgimigli, ex vigile urbano manfredo oggi 55enne, e il 41enne albanese Daniel Mullaliu, fratello della sua ex compagna. Avrebbero teso un agguato al macellaio insieme ad altre due persone rimaste tuttora ignote. Il movente: Montanari, schiacciato dai debiti, sarebbe stato sul punto di denunciare Valgimigli, che non solo pretendeva la restituzione dei prestiti elargiti con interessi usurari, ma lo aveva pure convinto a vendere la propria casa.

La confidenza in carcere

Un colpo di scena la riapertura del caso. Si ricorderà infatti che Valgimigli ha già patteggiato la pena di un anno per la morte del macellaio, inizialmente classificata come suicidio e ritenuta conseguenza dello strozzinaggio da parte dell’ex vigile. A rimettere tutto in dubbio è stata una confidenza fatta in carcere a Ferrara dallo stesso 55enne, dopo l’arresto per estorsione nel 2019. Una rivelazione emersa tre anni dopo, il 20 dicembre 2022. Quel giorno Antonio Barra, pluri-pregiudicato campano con svariati anni ancora da scontare, ex compagno di cella di Valgimigli, racconta le rivelazioni choc ascoltate durante il periodo di “convivenza” dietro le sbarre: l’ex vigile gli avrebbe confessato di avere commesso l’omicidio con l’aiuto di altre tre persone tra le quali, appunto, il fratello della fidanzata. Barra non fa economia di dettagli, alcuni dei quali mai apparsi negli articoli di cronaca. Fra questi l’orario e la dinamica dell’aggressione, un agguato avvenuto intorno alle 4 di mattina all’interno del negozio, dove Valgimigli, atteso dalla vittima per farle firmare le pratiche della vendita della casa, avrebbe lasciato la porta aperta per consentire l’ingresso dei complici e immobilizzarla alle spalle: “Non ha capito nulla quel cristiano... è stato un attimo... non ha avuto tempo”. Poi il cappio, “uno spago di nylon, una cordicina di colore blu”, infine la posizione del corpo, lasciato in una zona non visibile all’esterno del negozio. Solo due ore più tardi, alle 5.50, l’ex vigile si sarebbe ripresentato, inscenando il rinvenimento del cadavere e chiamando in prima persona i carabinieri.

A distanza di tempo, una volta uscito dal carcere ferrarese, Valgimigli avrebbe anche scritto al compagno di cella. Ancora le parole del detenuto, messe agli atti del fascicolo: “Mi ringraziava se io avessi ucciso quello della concessionaria”. Ce l’aveva in quel caso con il titolare di una rivendita di auto di lusso che lo aveva denunciato - pure lui - per estorsione. Già in carcere gli aveva promesso per il “lavoretto” una ricompensa di 50mila euro: “Una volta che fossi stato in permesso, mi avrebbe fornito un numero da contattare, mi avrebbe procurato una pistola e avrei dovuto lasciarlo sulla sedia a rotelle”.

La richiesta di archiviazione

Riaperte le indagini, il sostituto procuratore Angela Scorza aveva però ritenuto difficilmente dimostrabile l’ipotesi investigativa del delitto premeditato. A partire dalla posizione stessa dell’ex compagno di cella, all’epoca in attesa di permessi premio; non è escluso che abbia calcato la mano sulle confidenze ricevute, pur di ottenere benefici. Secondo il pm, inoltre, lo stesso Valgimigli potrebbe inoltre avere millantato di avere architettato il delitto per enfatizzare la propria caratura criminale agli occhi del galeotto, pluripregiudicato per delitti anche di stampo mafioso. E ancora, il movente vacilla nel momento in cui, con la morte del macellaio, sarebbe sfumato l’affare della vendita della casa, così come l’incasso dei soldi e il possibile subentro nell’attività commerciale.

Un’aggressione poi - ancora il dubbio del pm - avrebbe lasciato qualche segno; invece nulla è stato trovato sul corpo della vittima. E come si spiegano le due lettere scritte da Montanari di suo pugno (una rinvenuta in un leggio indirizzata ai carabinieri, l’altra nel portafogli tenuto in tasca) con accuse esplicite verso lo strozzino, per poi lasciare le ultime parole all’addio?

Gli indizi

Eppure per il gip gli indizi sono molteplici. Non solo le telecamere di videosorveglianza dell’abitazione adiacente a quella del macellaio inquadrano Valgimigli tentare per due volte di farsi aprire alle 20.41 e alle 22.30, la sera prima della morte; alle 3.26 del 25 luglio filmano Montanari uscire di casa per andare in negozio. Le celle telefoniche captano il telefono dell’ex vigile riaccendersi solo alle 5.47 di quel giorno per segnalare il rinvenimento del corpo. Ripetitori che incastrerebbero anche il presunto complice albanese.

Secondo il magistrato contrastano poi con l’ipotesi del suicidio il fatto che la vittima avesse lasciato il cellulare in carica, le luci spente e la porta socchiusa con le chiavi inserite nella toppa dall’interno. Infine i particolari ritenuti «inquietanti» sulla postura del cadavere con le gambe flesse e i piedi che toccavano il piano. Posa certo non incompatibile con l’impiccagione, ma definita «atipica» dal medico legale.

Tutti elementi che per il giudice «consentono di ricostruire il ruolo centrale rivestito da Gian Carlo Valgimigli nell’uccisione di Domenico Montanari, coadiuvato da Daniel Mullaliu, unitamente ad altri soggetti rimasti ignoti». Un giudizio che ora instrada i due imputati - difesi dagli avvocati Gabriele Bordoni e Luca Donelli - verso la Corte d’assise.

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