Castel Bolognese. Tentata estorsione con metodo mafioso allo zio. Chiesta la condanna a 8 anni

Ravenna

Un cambio di ruolo clamoroso. Da testimone chiave di un processo per tentato omicidio e tentata estorsione con l’aggravante del metodo mafioso, a complice degli altri tre imputati. Nei confronti di Antonino Timpanaro, 50 anni, presunto componente del sodalizio criminale rappresentato secondo l’accusa da Salvatore Randone, Antonino Nicotra e Antonino Rivilli, la procura distrettuale antimafia ha chiesto la condanna a 8 anni. Per il pm della Dda Francesco Caleca, anche lui partecipò all’intimidazione avvenuta ormai 18 anni fa ai danni di Salvatore Arena, suo zio, ma non ci sono prove per dimostrare che prese parte alla successiva rappresaglia che due anni dopo vide l’imprenditore siciliano residente a Castel Bolognese vittima di un agguato colpi di pistola, al quale scampò per miracolo. Queste le conclusioni dell’accusa presentate al collegio penale presieduto dal giudice Cecilia Calandra (a latere magistrati Piervittorio Farinella e Cristiano Coiro), calcolando la riduzione della pena di un terzo dovuta al rito abbreviato.

Timpanaro, nipote della vittima, era presente all’incontro a Piano Tavola, in provincia di Catania nel 2007, anzi lo organizzò lui. In quell’occasione, a un fratello di Arena furono rivolte intimidazioni affinché quest’ultimo rinunciasse a un appalto a Imola, lasciando margine d’azione all’impresa concorrente di Randone, per il quale Timpanaro lavorava. La conversazione fu registrata dal fratello di Arena ed è divenuta una delle principali prove che hanno portato alla condanna a 20 anni degli altri tre imputati, lo stesso Randone, Nicotra e Rivilli. Pena non ancora definitiva, considerato che la Cassazione, pur confermando l’estorsione, ha annullato i capi relativi al tentato omicidio e all’aggravante del metodo mafioso, rinviando la decisione a un nuovo giudizio davanti alla Corte d’appello di Bologna. L’episodio rimesso in discussione è quello del luglio del 2009. Erano trascorsi due anni dalla riunione in Sicilia. Quella mattina Arena, uscito in strada per gettare la spazzatura, fu raggiunto da una raffica di colpi di pistola che lo colpirono a un braccio e a una gamba, lasciandogli però le forze per rialzarsi e scappare. E’ stata proprio la vittima stessa, già avviato il processo nei confronti dei tre principali imputati, a muovere nuove accuse, questa volta nei confronti del nipote. E ora è parte civile con l’avvocato Nicola Montefiori.

Di «giustizia a porte scorrevoli» parla la difesa dell’imputato, assistito dagli avvocati Lorenzo Valgimigli e Alice Rondinini. Nel corso dell’arringa i legali hanno riepilogato la posizione di Timpanaro, ritenuto un soggetto “tra incudine e martello”, che non poteva rifiutarsi di organizzare l’incontro come chiesto da Randone, suo datore di lavoro, e lo fece nell’ottica di proteggere lo zio. Durante la riunione - continuano i legali - intervenne un paio di volte e non vi sarebbe prova che conoscesse gli altri eccetto il proprio titolare. In definitiva, secondo i difensori, non ci sarebbero elementi di prova nuovi tali da cambiare una valutazione portata avanti per anni, ritenendo Timpanaro esattamente il contrario di quanto è ora, cioè un teste chiave.

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