Botte tra ragazzi per un like, la psicologa: “Per i social ci vorrebbe una patente, ma etichettare queste generazioni è sbagliato”
Non criminalizzare gli smartphone, non etichettare un’intera generazione per episodi in realtà meno “nuovi” di quanto si pensi, ma sforzarsi di capire cosa sta succedendo e, soprattutto, perché.
A questo invita Katiuscia Giordano, psicologa della comunicazione ed esperta in gestione della crisi. Un profilo che appare ideale per cercare di analizzare quanto avvenuto nei giorni scorsi a Cesena, dove per due volte in tre giorni un gruppo di decine di adolescenti si è riunito per assistere (con gli smartphone in mano) a uno scontro a calci e pugni tra due ragazze. Il tutto, stando ai racconti degli stessi giovani, solo per racimolare notorietà e consensi sui social. Un fatto di cronaca che colpisce per il livello di violenza gratuita e il cinismo di chi osserva con il cellulare in mano, ma che in realtà è molto più frequente di quanto si pensi. «A livello di cronaca - spiega Giordano - ricordo un fatto analogo recente in Veneto. Ma più che chiederci se tutto ciò sia “normale”, credo sia più costruttivo chiedersi perché ciò avvenga».
Secondo lei perché ?
«Per i ragazzi in quella fase evolutiva è normale cercare un’identità e un senso di appartenenza. Il giovane cerca un riferimento che, se non trova nella famiglia e nella società, allora cerca altrove; a volte in forme gruppali (spesso etichettate come baby gang) che sviluppano codici in cui può essere prevista anche la violenza».
Colpisce il fatto che la violenza non sia più una caratteristica solo maschile?
«Purtroppo è un fenomeno sempre più frequente. Ma è il frutto di quello che vivono. Il bisogno di fisicità deriva dalla necessità di affermarsi e di difendersi. Agisce con violenza chi percepisce incertezza».
Si tratta davvero di dinamiche nuove o forse di “nuovo” abbiamo solo la presenza di telecamere e social, rispetto a soli 20 anni fa?
«Un po’ entrambe le cose. Occupandomi di psicologia dell’emergenza so bene che viviamo tempi in cui di fronte alla sofferenza altrui in molti, prima di dare una mano o chiedere aiuto, prendono in mano il cellulare per fare un video. D’altro canto, è anche vero che rispetto al passato l’adolescenza è vissuta di più sotto i riflettori. Ma certe dinamiche in realtà si ripetono da secoli. Dipingere le nuove generazioni come così distanti e anomale non credo sia corretto»
Cosa c’è alla base?
«C’è un bisogno di educazione alle differenze e contro gli stereotipi. Le scuole e le famiglie dovrebbero svolgere il proprio ruolo e bisognerebbe sdoganare la figura dello psicologo per una educazione emotiva»
In tutto questo i social sembrano però essere diventati l’unico palcoscenico sociale? E’ come se avessero sostituito la vita reale?
«La mia esperienza da psicologa in realtà mi dice il contrario. Le nuove generazioni stanno fuggendo dai social. Li vivono come le piattaforme dei genitori. Preferiscono WhatsApp e Youtube. Dirò di più: anche il mito degli influencer sta perdendo fascino, i ragazzi hanno capito che impongono modelli non sostenibili, soffocanti, quindi non autentici».
L’età in cui a un ragazzino viene dato uno smartphone però si è abbassata
«Lo smartphone è solo uno strumento. Il problema è l’uso. Non demonizzerei tutto. Dare un tablet a un bimbo per fargli leggere un libro non è una cosa negativa. E anche dare un cellulare a un ragazzino con delle restrizioni sulle app è una forma di educazione. Bisognerebbe però educare ai social; spiegando, ad esempio, che il comportamento su Instagram o Facebook con un interlocutore è diverso da quello che si ha di persona»
Come bilanciare reale e digitale?
«Promuovendo spazi di incontro. E’ importanti offrire opportunità di gruppo come eventi sportivi che possano competere con la fragilità dei social. E poi serve un’educazione al digitale. Come per guidare una macchina, bisognerebbe avere prima una sorta di patentino, per capire che i social non sono un sostituto delle relazioni, ma una parte delle relazioni. Talvolta anche le stesse famiglie danno ai ragazzi strumenti di cui non conoscono né i rischi né le potenzialità. Mi lasci dire però che questi fatti di Cesena paradossalmente hanno anche un aspetto positivo».
Quale?
«Si è trattato di un episodio avvenuto in pubblico. E come tale ha generato l’intervento del sindaco di Cesena, delle forze dell’ordine e dei giornalisti. Insomma è qualcosa di cui possiamo parlare e su cui possiamo intervenire. Il problema è quando questo disagio si manifesta all’interno di una camera chiusa di un adolescente. In quel caso intervenire è difficile. E spesso, quando interveniamo, è tardi».