«E’ difficilissimo correlare una malattia o una morte da amianto alla responsabilità penale di un soggetto». Ne sarebbe l’ulteriore dimostrazione la recente sentenza della Suprema Corte che ha chiuso definitivamente con assoluzioni e prescrizioni il maxi processo per le morti e le asbestosi polmonari da amianto ricondotte al Petrolchimico di Ravenna. Per Roberto Riverso, fino al 2015 giudice del lavoro nel tribunale Bizantino, poi passato in Cassazione, e ora consigliere giuridico del ministro del lavoro e delle politiche sociali, Nunzia Catalfo, si tratta di una decisione che conferma una direzione giurisprudenziale ormai presa da anni. Ma le «strade alternative – spiega – non mancano».
Giudice Riverso, è un finale amaro che tocca decine di lavoratori che hanno passato anni a contatto con le fibre killer. Che cosa ne pensa?
«Non posso entrare nel merito della decisione, non avendo letto le motivazioni. Questa sentenza ci ricorda però che non ci sono solamente gli infortuni sul lavoro, ma anche malattie professionali che producono ancora più vittime, oltre il doppio, e non fanno nemmeno numero a livello statistico. La Cassazione negli ultimi dieci anni ha preso una direzione molto precisa, soprattutto in materia di nesso causale tra attività nociva e singola personale responsabilità penale».
Qual è l’ostacolo che impedisce le condanne?
«Nelle malattie professionali legate all’amianto, dove si parla di una lunghissima esposizione nociva, è difficile stabilire quale sia stato il momento di contatto con l’elemento patogeno. Da punto di vista penalistico è cruciale: bisogna correlare la data dell’esposizione con l’identificazione di un soggetto responsabile, mettere cioè in relazione il ruolo rivestito nell’impresa al meccanismo causale. Ma spesso, in casi di aziende di grandi dimensioni, sono tanti i dirigenti che si avvicendano e non è facile legare la responsabilità legale a quella penale. Anche perché nelle malattie professionali si parla di patologie che possono tardare anche 40 anni a manifestarsi. È questo il ragionamento che fa la giurisprudenza della Cassazione per neutralizzare negli ultimi anni le tesi colpevoliste».
Dunque non c’è speranza per chi ancora oggi chiede giustizia?
«Questo non significa che non ci siano altre strade per tutelare i lavoratori. La via più semplice è tramite l’Inail che può dare un indennizzo ai superstiti e alle vittime. È altrettanto agevole la via della responsabilità civile risarcitoria dell’impresa, che non richiede la “prova diabolica” nei confronti del singolo legale rappresentante».
Una strada che ha avviato anche lei a Ravenna, con le sentenze emesse quando era giudice del lavoro...
«Proprio a Ravenna si è arrivati al riconoscimento di una responsabilità sociale nei confronti degli esposti all’amianto. Migliaia di persone hanno beneficiato di prepensionamenti per l’esposizione alle fibre nocive. E’ una battaglia che ho fatto a livello nazionale».
Si potrebbe fare di più? Le leggi ci sono ma non vengono rispettate?
«Esiste un enorme problema di legalità del lavoro, anche a Ravenna, che espone i lavoratori a rischi di cui non sono nemmeno consapevoli. Bisogna attivare tutti i meccanismi esistenti, per sanare l’enorme scarto tra le regole e la loro applicazione. La soluzione potrebbe essere una Procura centrale per coordinare i procedimenti su infortuni e malattie, che li valuti in un unico contesto nazionale».
C’è speranza che, anche a livello penale, cambi la corrente interpretativa?
«Mi auguro piuttosto che finisca questo triste rosario di morti. Nei prossimi anni dovremo occuparci della questione ambientale legata all’amianto, che ora è il vero problema da quando nel ‘92 è stato bandito dal luogo di lavoro. È una questione anche di civiltà, da delegare alla politica e non alla magistratura, che arriva quando il danno è già fatto. Certo è che si potrebbe agire in via preventiva, ma non vedo questa sensibilità. Ecco perché mi piacerebbe ci fosse un apposito organo giudiziario».