Raffaello torna a Rimini: la storia si riallaccia dopo 178 anni

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RIMINI. La Madonna Diotallevi di Raffaello Sanzio e Audiface Diotallevi. L’opera del maestro del Rinascimento, dalla vicenda intricata e misteriosa, e il collezionista ottocentesco raffinato, libertino, amante dell’arte e della musica. Il loro “incontro” e la loro “separazione” è una storia ricca di glorie e disfatte, luci e oscurità, attribuzioni e vendite.

Celebrazioni per i 500 anni

Una storia che si riallaccia dopo 178 anni grazie all’importante mostra, curata dallo studioso Giulio Zavatta e voluta tenacemente dal Comune di Rimini, che si inaugurerà il 17 ottobre nel Museo della Città, in occasione dei 500 anni dalla morte dell’artista urbinate. Un evento imperdibile per i riminesi e di portata internazionale. In esposizione questa affascinante e ancora impenetrabile opera, affiancata da altri due capolavori: L’incoronazione della Vergine di Giuliano da Rimini e il Crocifisso di Giovanni da Rimini, appartenuti anch’essi alla collezione di Audiface. Il dipinto raffaellesco torna a casa e vi rimarrà fino al 10 gennaio. Dalla Gemäldegalerie di Berlino, dove è custodito, un viaggio verso la Romagna che porta indietro le lancette del tempo, alla prima metà del XIX secolo, tra il periodo napoleonico e l’unità d’Italia, quando Rimini, proiettata verso nuovi orizzonti economici e turistici, si colorava dei primi stabilimenti balneari e viveva una brillantissima e stimolante vita culturale. Protagonista di quegli anni, un romagnolo dallo sguardo europeo, appassionato e collezionista d’arte che acquistò questa meravigliosa tavola. Un’opera destinata a un percorso attributivo tormentato, costellato di colpi di scena, e a una ricostruzione storica che ha visto impegnati i più grandi critici d’arte italiani, da Adolfo Venturi a Roberto Longhi, e che presenta ancora un alone di mistero: la Madonna e il Bambino hanno un tocco arcaico, peruginesco, mentre il San Giovannino presenta una morbidezza e modernità già pienamente raffaellesche. Audiface se ne innamorò.

Zavatta, è stato difficile portare a Rimini quest’opera?

«C’è stato uno scambio con Berlino – racconta il curatore della mostra e docente dell’Università Ca’ Foscari –: Rimini ha prestato La Pietà di Bellini e a fronte di questo si è insistito perché ci prestassero la Madonna Diotallevi. Due anni e mezzo di dialogo e contatti. Le opere che hanno più di 500 anni sono fragili. Il trasporto, il cambiamento di luce e temperatura sono dei rischi. Si prestano solo quando ci sono importanti celebrazioni e motivi di studio, come in questo caso in cui la restituiremo con un surplus di conoscenze significative».

Cosa attenderà il pubblico riminese?

«Un allestimento molto suggestivo, curato dagli architetti dello studio Cumo Mori Roversi, che hanno donato il progetto alla città. Tutta la mostra ha un forte valore etico, di partecipazione collettiva. Nasce con due assessori, Massimo Pulini e Giampiero Piscaglia, ed è stata sostenuta dall’entusiasmo di tutti gli operatori. La Madonna Diotallevi ci svela ulteriori aspetti di Raffaello ma parla anche di Rimini, della sua identità, è un’ambasciatrice di bellezza nel mondo».

Ma chi era Audiface Diotallevi?

«Un uomo dalla vita quasi da romanzo ottocentesco. Il padre era sposato con una nobildonna, ma viveva more uxorio con la sua amante, uno scandalo per quei tempi. Il fratello, Adauto Diotallevi, si macchiò del tentativo di omicidio dell’amante del padre. Il libertino Audiface sposò Francesca Reggiani, una donna forlivese anch’essa libertina».

Fu l’ultimo gonfaloniere dello Stato Pontificio, vice console del re di Francia, sindaco, promotore principale della costruzione del teatro riminese.

«L’architetto del Galli, Luigi Poletti, abitava proprio a Palazzo Diotallevi e fu Audiface a pagare il bellissimo sipario a Francesco Coghetti».

Una vicenda complessa

Diotallevi fondò una banca destinata a fallire, per questo dovette vendere pregiati pezzi della sua collezione artistica. Viaggiatore, ebbe un carteggio con Stendhal, fu compagno di studi al conservatorio di Gioachino Rossini. «Era sindaco quando si decise sulla collocazione della stazione e la città si apriva verso la modernità». Una Rimini dinamica, anche grazie a lui. Nella sua casa passavano artisti, studiosi ed esperti europei in cerca di opere da acquistare. Fu in quel periodo che giunse a Rimini Gustav Friedrich Waagen, in cerca di meraviglie, il quale notò la Madonna a quel tempo creduta di Perugino e che lui attribuì invece alla fase giovanile di Raffaello: 650 scudi e se la portò in Germania, insieme ad altre 73 opere d’arte. Dopo di lui altri cacciatori di tesori: come Otto Mündler, lasciato a bocca asciutta però dal coriaceo riminese. «Stava prevalendo in Audiface la diffidenza», spiega Zavatta. E forse furono veramente anni bui e tristi quelli finali, prima del 1860 quando morì: «Un finale laconico. Con lui si chiuse un periodo storico». Lasciò debiti, una banca andata male e un testamento che fece infuriare il nipote. «Nel fondo Gambetti della Biblioteca Gambalunga è ancora conservato il volantino con l’avviso di vendita delle sue collezioni e della quadreria». Altri personaggi si affacciarono e fecero parte di questo plot tra ricchezze e povertà improvvise: il collezionista Josè de Salamanca, ad esempio, che porterà la collezione alla dispersione finale. Per ricostruire queste vicende Giulio Zavatta ha analizzato innumerevoli documenti, fonti dall’Archivio Prussiano di Berlino, dagli archivi di Rimini e Roma. E molti gli studi sullo stile e gli spostamenti di Raffaello.

Qual è la sua posizione in merito all’attribuzione?

«Credo che Raffaello abbia realizzato quest’opera prima di stabilirsi a Firenze, nel periodo di poco precedente quel 1504 che rappresentò una svolta assoluta. È un dipinto di transizione, affascinante per le diversità stilistiche che presenta. È come se ci fossero due quadri dentro questa tavola».

Nella manica lunga del museo ci saranno anche i ritratti degli studiosi della “Madonna Diotallevi”, ma non il volto di Audiface.

«Non è noto nessun suo ritratto – spiega Zavatta – una situazione stranissima vista la sua notorietà. Sappiamo tanto di lui ma rimane purtroppo ancora un uomo senza volto».

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