Pier Vincenzo Mengaldo: «In Italia la narrativa è finita»
PADOVA. È uno dei grandi della critica letteraria, Pier Vincenzo Mengaldo, uno «dei maggiori intellettuali italiani del nostro tempo, storico della lingua italiana, filologo, critico letterario, professore dell’Università di Genova, Ferrara e Padova, maestro di più generazioni di studiosi e ricercatori», come recita la motivazione del Premio Moretti 2019 alla carriera che gli verrà consegnato sabato 26 ottobre (ore 18) nel Teatro Comunale di Cesenatico. Nella stessa cerimonia, che verrà condotta da Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio Tre, saranno premiate anche, per la sezione filologia, Elena Maiolini, e Ida Campeggiani per gli studi di storia e critica letteraria. Pier Vincenzo Mengaldo ci concede un’intervista dalla sua casa di Padova.
Professor Mengaldo, lei per molti anni, oltre al lavoro critico, ha anche insegnato Storia della lingua italiana a generazioni di studenti nelle università di Genova e Ferrara, e a Padova, la città dei suoi studi: qual è, da questo osservatorio, lo stato di salute dell’italiano?
«La mia impressione, anche a 16 anni anni di distanza dagli ultimi corsi che ho tenuto, è che sia invalsa una certa imprecisione nella sua conoscenza e nel suo uso, un dato imputabile al numero molto alto degli studenti che ostacola l’approfondimento e la correttezza. Ricordo che anche durante gli stessi esami, per esempio, riscontravo una grande mancanza di rigore e di precisione… oltre che di cultura! Ma mi pareva che le inefficienze maggiori fossero proprio a livello linguistico».
Si possono individuare delle responsabilità?
«È vero che il tipo di cultura da cui dipendono i giovani, oggi, è molto diversa da quella a cui facevo riferimento io, o anche generazioni di poco successive alla mia. Per dirla in una battuta, forse è proprio la massificazione ad aver tolto raffinatezza e anche consapevolezza all’uso della lingua».
Lei con i suoi saggi e con edizioni critiche fondamentali come quelle del “De vulgari eloquentia" di Dante e degli “Amorum libri" di Boiardo, oltre che delle sue “Opere volgari”, ha dato interpretazioni definitive su pilastri della letteratura italiana come quelli citati, e su molti altri: ma sembra che ormai affrontarli, anche a livello scolastico, sia troppo difficile, o poco in sintonia con la contemporaneità.
«La domanda è perché leggerli, quindi? Ma proprio perché la loro lingua, tanto per dirne una, non è quella di oggi, e bisogna fare uno sforzo per comprenderli. Il controllo e il buon uso della propria lingua infatti, e ne sono profondamente convinto, avvengono quanto più la si mette a confronto con lingue diverse: quelle straniere, certo, ma anche con i diversi stadi di vita e di evoluzione che la nostra lingua di appartenenza ha affrontato. So che la mia può sembrare un’affermazione estrema… ma la conoscenza avviene per differenza! Quindi quando leggiamo Dante, per esempio, percepiamo che l’interesse e il fascino di quel testo stanno proprio nel fatto che non è scritto nella “nostra” lingua, la lingua d’uso…».
E quindi non è fuori luogo parlare, ancora volta, di una “fatica” della conoscenza, da cui però non ci può esimere.
«Certo, la conoscenza è sforzo intellettuale… ma non tutti praticano quello sforzo, e lo scelgono. Proprio per questo a scuola bisognerebbe tornare a insegnare, e sempre di più, i classici: che richiedono un’azione intellettuale impegnativa, ma che premia».
Lei sa che invece le indicazioni ministeriali, per dirne una, vanno proprio nella direzione opposta e che viene sollecitato piuttosto lo studio dei narratori moderni o contemporanei.
«Non bisogna perdere di vista però la sostanziale “fragilità” della narrativa italiana di oggi: dove possiamo ritrovare infatti la potenza e la bravura di un Calvino, o del Primo Levi di “Se questo è un uomo” o “La tregua” anche negli autori che adesso vanno per la maggiore?».
Il panorama delle letteratura straniere la convince di più? Lei si è occupato di romanzieri come Balzac e Tolstoj: vede qualcuno alla loro altezza all’estero?
«Sì, negli ultimi decenni ho avuto modo di leggere molti autori di alto livello, di qualità e grande potenza: penso a Yehoshua, ad Amos Oz o a Grossman, a Sebald con il suo “Austerlitz”: uno dei primi casi in cui uno scrittore “gioca” con l’immagine fotografica. Ecco, non mi pare che fra i narratori italiani di oggi ci sia nessuno di questa forza…».
Lei cita però ben tre autori che raccontano attraverso le loro storie anche la complessa e dolorosa condizione della loro nazione, e per i quali, addirittura, spesso le storie che narrano diventano metafora di quella stessa situazione.
«Infatti forse la narrativa può vivere solo in Paesi di forti contrasti… e Israele si trova da sempre in una situazione continuamente conflittuale. Dove, come in Italia, i contrasti sono quasi scomparsi, la narrativa è finita».
E la poesia? Anche in questo campo il suo lavoro ha segnato tappe fondamentali, per esempio grazie alla celebre antologia “Poeti italiani del Novecento”: il volume esce nel 1978, e rappresenta uno spartiacque per la visione critica di questo genere letterario.
«Gli ultimi grandi poeti sono stati Giudici e Raboni… dopo di loro non vedo nessun grande autore».
Forse bisognerebbe rivolgere lo sguardo allora a una poesia in qualche modo “altra”, per esempio alla produzione in dialetto.
«È vero, e di questo filone mi sono occupato molto. Penso a un autore come il vostro conterraneo Raffaello Baldini: quando fu pubblicato “Ad nòta”, anzi, scrissi che se nel nostro Paese ancora non valesse il pregiudizio secondo cui il poeta in dialetto è un “minore”, Baldini sarebbe da annoverare fra i tre o quattro autori più importanti d’Italia. Ecco, in questi emiliano-romagnoli, in Tonino Guerra, Walter Galli… si vedono lo scatto, il salto. Gioca l’importanza della differenza linguistica, mentale, sociale… e se un poeta è dotato, come lo erano quelli che ho citato, allora sì, possono venire fuori cose belle, che raccontano il mondo con efficacia e potenza».
Info: www.casamoretti.it