Lontana da casa, dalla parte degli ultimi. Al lavoro per l’Unicef

«Costruire scuole per sradicare le ingiustizie». Possiede la doppia cittadinanza la 52enne Denise Venturini, cooperante dell’Unicef, avendo mamma sammarinese e papà italiano. Residente a Rimini, si trova per lavoro in Libano e dalla terra dei cedri, di cui narra la Bibbia, ripercorre la sua storia con una chiacchierata informale «in cui – come chiarisce subito - non parla a nome di Unicef».

Il suo percorso include studi in Architettura a Firenze, poi culminati nei programmi Erasmus e Leonardo che negli anni Novanta la vedono sbarcare in Portogallo, una terra di cui si innamora subito «perché crocevia proiettato sui mondi al di là del mare e sospeso in una sorta di malinconia - sottolinea - per qualcosa che si è perso ma che rivive nel ricordo».

Ma è solo l’inizio. Denise consegue un master in “Pianificazione urbana e rurale nei paesi in via di sviluppo” a Venezia e inizia la sua carriera collaborando con varie organizzazioni internazionali fra cui, dal 2011, l’Unicef. Il tirocinio avviene in Brasile e nel cammino non mancano imprevisti. Nel 2010 la vettura delle Nazioni Unite su cui viaggia subisce un’aggressione a Haiti e nel 2016 scoppia un assalto jihadista mentre è in Bangladesh. Episodi che tuttavia non fermano i suoi progetti, soprattutto dopo lo tsunami, dallo Sri Lanka alla Palestina sino all’Egitto e Burundi.

Venturini, esiste una giornata tipo per una cooperante?

«Le dinamiche variano in base allo Stato e al contesto di emergenza o di sviluppo, in un’area di conflitto oppure funestata da disastri naturali. Le contraddizioni? Se è in corso una calamità devi agire in tempi celeri ma spesso qualsiasi struttura statale è stata spazzata via dagli eventi. Il filo rosso restano ritmi di lavoro fino a 16 ore al giorno e la necessità di prendere decisioni immediate, pur restando un’ospite, nell’estenuante scontro con la burocrazia che talvolta ci rallenta proprio come - se e quando capita - il mancato coordinamento tra enti internazionali concentrati nello stesso luogo».

Il lato migliore?

«La curiosità e la gioia di accostarsi a mondi diversi. Non scorderò i paesaggi incontaminati di Haiti e i viaggi lunghi giornate per arrivare a destinazione, in un centro di salute in costruzione in Congo. Ero sola con l’autista, talvolta in moto, e ho attraversato foreste e laghi in mezzo al nulla con la spensieratezza della gioventù, sebbene all’epoca non esistessero i cellulari e mancasse il kit di primo soccorso. Dello Sri Lanka, invece, porto nel cuore la strada che si snoda dall’aeroporto alla capitale con le donne che entrano in fabbrica al mattino. Un’onda di sari colorati in una città brulicante di traffico come un formicaio tra il profumo del curry che inonda le case e l’ombra di giganteschi templi sullo sfondo. E poi il caldo umido che ti appiccica la pelle alle sedie di plastica sotto ventilatori antidiluviani. Ma anche il profumo del frangipane in Asia e la primavera in Malawi quando la strada di casa si tinge di porpora per la pianta del jacaranda o di rosso per il flamboyant e vai al lavoro, ogni mattina, attraversando un mare traboccante di colore. Vibranti di storia e tradizioni anche i tessuti africani e i legni locali con cui arredo i luoghi dove vivo, per ricreare un nido in armonia con l’ambiente circostante».

Nascere, come lei, tra due culture fa la differenza?

«Ricollego il percorso che ho intrapreso alla mia storia familiare che annovera nonni materni emigrati dal Titano agli Stati Uniti non per scelte professionali ma in cerca di possibilità. Essere romagnola, invece, aiuta a spingersi senza paura oltre le proverbiali colonne d’Ercole».

Luoghi comuni sulla cooperazione?

«Troppo spesso si considera un cooperante alla stregua di un missionario mentre è una professione che ha esigenza di formazione continua per sostenere dinamiche di educazione e sviluppo. Da sfatare anche il mito per cui conduciamo una vita fantastica mentre non manca la sofferenza. In questi contesti non è facile crearsi una famiglia né tantomeno seguire la giovinezza dei tuoi nipoti o la vecchiaia dei parenti. All’opposto circola uno stereotipo con un fondamento di verità: noi romagnoli siamo i cuochi migliori del mondo perché in mezzo al nulla imbastiamo un orto e una situazione di convivio producendo persino del formaggio. In pratica tiriamo fuori il meglio anche in dimensioni stranianti e ostile».

Di cosa è più orgogliosa?

«Delle scuole che abbiamo costruito perché non sono contenitori ma un punto di riferimento comunitario anche in situazioni di emergenza. Un luogo che assicura un futuro ma anche visite mediche, acqua potabile e un pasto al giorno. Un microcosmo, quasi una fortezza, dove l’inclusività non è solo una parola e le bambine hanno le stesse opportunità dei coetanei maschi».

Consigli a chi desidera intraprendere questa carriera?

«Documentarsi sui modi per entrare in un percorso sempre più strutturato tenendo presente che non esiste solo la sfera dei volontari. Ma anche cimentarsi sul campo e porsi interrogativi, perché per quanto affascinante, il nostro è un mestiere che implica grandi rinunce».

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