Scambi di insulti, risse nelle vie dei centri storici, consumo smodato di alcolici e insofferenza alle regole. I comportamenti violenti dilagano anche tra i giovanissimi, come mostrano recenti fatti di cronaca: la pandemia da cui saremmo dovuti uscire “migliori” sembra invece essere andata a minare fragili equilibri e ad alimentare le situazioni conflittuali. Diversi i fattori da considerare, come spiega la dottoressa Cinzia Carnevali, psicologa e psicoanalista della Società psicoanalitica italiana.
Dottoressa Carnevali, da quando sono state allentate le restrizioni abbiamo assistito a momenti di violenza che hanno coinvolto anche ragazzi molto giovani, che sembrano essere sempre più insofferenti alle regole. Come si può spiegare?
«L’anno scorso è arrivata questa prima ondata di Covid molto velocemente, in un modo del tutto improvviso che ha portato ad un lockdown molto duro. Davanti ad un nemico esterno però la comunità intera si è resa compatta per il bene comune. In questa situazione i conflitti sono passati in un secondo livello».
Ma poi…
«Il protrarsi del virus, con picchi di contagi e regole più o meno restrittive ha portato tutti a sentirsi logorati. Soprattutto i giovani hanno provato un senso di privazione dell’incontro, che avveniva anche a scuola. La dad ha richiesto una grande attenzione emotiva. Gli adolescenti si sono trovati da soli davanti allo schermo, in isolamento e senza contatto umano. Questo ha portato a una situazione di grande sofferenza e angoscia».
I ragazzi però sono rientrati a scuola.
«Sì, c’era il desiderio di tornare a scuola ed entusiasmo per le nuove possibilità di dialogo e ascolto. Hanno però anche trovato la pressione dell’ultimo mese di scuola, con esigenza di voti da parte degli insegnanti e un continuo di prove scritte e interrogazioni».
I giovani anche di recente sono stati “accusati” di essere poco ligi alle regole e di contribuire alla diffusione del contagio. Anche questo può incidere?
«Sì. Questa narrazione collettiva che proietta su di loro la colpa è stata vissuta dai giovani come un’ingiustizia. I ragazzi vivono le contraddizioni degli adulti, sia in famiglia che a livello politico, con una perdita di fiducia e sicurezza».
Qual è stata la reazione a tutto questo?
«La reazione più immediata è quella alla maniacalità. Quando si è aperto un pochino di spiraglio, i giovani si sono attivati per compensare le perdite. C’è un’urgenza di correre per uscire dal tunnel, un pensiero desiderante che li può portare ad andare di corsa e ad essere più insofferenti alle restrizioni, con fenomeni di “scoppi” di rabbia».
Davanti a questi “scoppi” come si deve reagire?
«Bisogna consentire agli adolescenti degli atti di potenza, che non devono diventare arroganza o avere effetti distruttivi o autodistruttivi. Risse e scontri sono un tentativo di ricerca della giusta misura dell’aggressività. Gli adolescenti devono ritrovare sicurezza e autostima e non sottostare alle decisioni dei soli adulti; hanno bisogno dei genitori, che devono essere “contenitivi” ma anche offrire comprensione, sostegno e incoraggiamento».
Non sopprimere, quindi, ma ridirigere le energie?
«Sì, incanalare questa aggressività in impulsi vitali attraverso creatività, sport, incontri in presenza, musica. Se non incoraggiamo i ragazzi a raggiungere la propria soggettività, nel rispetto di quella degli altri, rischiamo di vedere i più fragili troppo sottomessi, passivizzati e ridotti non più a soggetti, ma a oggetti. Una certa ribellione è al servizio della loro soggettività, la ribellione alle ingiustizie. I ragazzi hanno ad esempio una grande attenzione verso l’ambiente e la forza di “cambiare il mondo” da cui anche noi adulti traiamo forza».