Isola delle Rose, ecco la vera storia raccontata dal fondatore
Quando il Corriere Romagna, nel 2008, a 40 anni dall’invasione, raccontò la vicenda dell’Isola delle Rose, la storia era completamente dimenticata, forse rimossa. Il successo del film che spopola su Netflix è il culmine di una riscoperta cominciata con una ricerca negli archivi e un’intervista all’ingegner Giorgio Rosa. Al cronista resta la soddisfazione di una commovente telefonata di ringraziamento. Dopo l’articolo, infatti, i riflettori tornarono ad accendersi su Rosa, anche oltre la morte (2017). Nella ferita dell’oblio, che lo aveva incupito per decenni, cominciò a filtrare la luce. Riproponiamo l’intervista, ritratto del personaggio “ritrovato” grazie al Corriere Romagna.
«Se avessi chiesto l’appoggio della mafia o della massoneria non avrei visto demolita l’isola». Sono passati quarant’anni (l’articolo originario è del maggio 2008 ndr), ma l’amarezza per la fine del sogno, resta intatta. L’ingegner Giorgio Rosa, bolognese, da allora non ha più rimesso piede a Rimini ed è ancora fermamente convinto di aver subito un sopruso inimmaginabile. Pronuncia, senza saperlo, le stesse parole delle interviste ingiallite rese all’epoca ai giornalisti di mezzo mondo attirati dalla storia dell’isola che voleva farsi Stato. «Qualche difficoltà l’avevamo prevista, ma la nostra stessa posizione geografica, fuori delle acque territoriali italiane, era studiata per evitare quello che poi è accaduto: un’occupazione militare non giustificata dal diritto internazionale». Rosa, che ha lasciato la professione nel 2003 e alla fine del mese gira in motorino per Bologna per riscuotere affitti, non è il tipo che vive di rimpianti. «Sono abituato a guardare avanti», né piange sui soldi e le energie buttate nell’impresa. Eppure, rievocare l’isola gli procura sofferenza. Dice che preferirebbe si continuasse a non parlarne, ma non c’è da credergli. «Per tutto questo tempo sono stato ignorato, ma è quello che desideravo. L’isola rivive ogni tanto solo nell’interesse di qualche filatelico, ma è meglio così: sono rimasto disgustato, l’epilogo è stato avvilente».
Sono fiorite tante leggende attorno…
«Si è favoleggiato di sottomarini russi e oscure manovre del governo albanese per impiantarvi dei missili, di una radio-pirata, quando in realtà non ne avevamo nemmeno una per comunicare con Rimini. Né si era ventilata l’idea di un casinò, non so neppure se esistesse davvero un progetto per un night-club. Fantasie. È vero che, in un certo senso, si sarebbe potuto fare di tutto. Non c’erano limiti. L’isola aveva intenti commerciali, volevamo sfruttarne le potenzialità turistiche. Ma ci hanno tagliato le ali prima di cominciare a volare».
Quando l’Isola della rose fu assaltata da truppe da sbarco italiane, il 25 giugno 1968, c’erano già bar, negozi di souvenir, ufficio postale, e stava per nascere un ristorante. Una volta completati i cinque piani della struttura, sarebbe toccato all’albergo, un grand hotel in mezzo al mare: sulla piattaforma, lottizzata, chiunque avrebbe potuto aprire, pagando, un’attività di qualsiasi genere.
Fin dall’inizio aveva in mente uno stato sovrano?
«Sì, la mia idea era farne un qualcosa di libero. L’ho pensata come una assoluta manifestazione di libertà: credo nella libertà, nella possibilità di autodecisione di ognuno. Sono convinto che solo nella libertà c’è la possibilità di incrementare l’industria, le idee, qualunque cosa. Volevo sfuggire alle imposizioni fiscali e alla burocrazia. E le cose da allora, oserei dire, sono peggiorate. Quanto all’Italia, io sono nato in periodo in cui la nazione era nazione: per me la patria è finita l’8 settembre del ’43. Non vado a votare e mi tengo alla larga dalla politica».
Chi sogna fa muovere le montagne, fa dire il regista Werner Herzog a un personaggio del film in “Fitzcarraldo”. Rosa, uomo di destra, anarco-capitalista ante-litteram, somiglia al protagonista. «Nel dopoguerra c’era da costruire e misi a frutto la mia laurea in ingegneria. Fin dai primi guadagni pensai di poter realizzare un’opera capace di resistere alle onde. Si trattava di progettare e realizzare a terra la struttura e poi portarla al largo in galleggiamento». Nega di aver avuto co-finanziatori, anche se le cronache dell’epoca parlano di «imprenditori padani», manco a dirlo (prima che lasciassi il suo appartamento mi sussurrò un nome, come fosse un segreto: «Ignis», c’era forse Giovanni Borghi pronto a supportarlo? ndr). Non era la passione per il mare a muovere l’ingegnere («Non ho mai imparato a nuotare»), ma la prospettiva di fare soldi, lontano da vincoli e imposizioni.
Scopre che può farlo ad appena poche miglia marine dalla costa. Raccoglie dati in Inghilterra, prepara modellini, campiona fondi marini. Lo prendono per pazzo. «Un fascistone stravagante», l’epiteto più gentile. Sceglie Rimini dove in nome del turismo, allora più che mai, tutto sembra possibile. Studia trattati, leggi e regolamenti.
Perché s’illudeva di essere più forte degli ostacoli legali?
«Ero dalla parte della ragione. Ebbi la rassicurante consulenza del professor Angelo Sereni, un’autorità assoluta del Diritto internazionale, con una cattedra all’Hopkins centre dell’università di Baltimora. Sì, nell’isola che verrà, fuori dalle acque italiane, sentenziò, si potrà aprire un locale pubblico senza nessuna autorizzazione, quello che è sulla piattaforma non è soggetto a dogana, ma non si potrà esportare sennò è contrabbando. C’era già una popolazione, praticamente in pianta stabile composta da tre persone, una lingua, una costituzione, quando scattò la repressione». La collocazione della piattaforma di 400 metri quadrati, una specie di miracolo per chi assistette alla procedura, per l’ingegnere è solo la logica conseguenza dei suoi calcoli. Si entusiasma al ricordo di aver gettato sul fondo, a ricordo dell’impresa, monete italiane dell’epoca. «Devono essere ancora lì, non sono riusciti a distruggere le fondazioni. Nove pali cavi da 630 millimetri, conficcati per quaranta metri». Poi dal traliccio, senza bisogno di palombari o sommozzatori l’isola fu inchiodata con altri tubi, più piccoli, e il tutto venne sigillato con il calcestruzzo. Fatto.. Il primo passo. Ne seguirono altri, come la scelta dell’esperanto come lingua ufficiale. «Allora andava parecchio (a Rimini nel ’65 si svolse il congresso nazionale della federazione esperantista nazionale ndr), era bello immaginare una lingua comune e sembrava a una possibilità concreta. Dava un afflato internazionale (chiedemmo anche l’affiliazione all’Onu prima che gli eventi degenerassero), e rappresentava una diversificazione. Gli esperantisti erano entusiasti: fornirono ogni possibile appoggio. Inoltre poteva essere un’attrattiva: una nazione dove si parlava un’altra lingua. Mi misi a studiarla».
Quindi, la dichiarazione d’indipendenza.
«L’isola da più di un anno era diventata una meta turistica, venivano, facevano il pic-nic, attraccavano con i motoscafi grazie a un nostro sistema di approdo che è ispirato all’ammiragliato di Londra ed è realizzato con tubi di gomma che sono pieni di acqua dolce. Ma era ora di andare avanti, e non solo con i lavori. Il primo maggio del 1968, così, io e il gruppo di amici che mi avevano aiutato, organizzammo il primo consiglio dei ministri sull’isola. Ci dividemmo sia gli incarichi che le responsabilità di governo, l’ufficializzazione fu successiva».
La micronazione che si costituì sulla piattaforma artificiale, con Giorgio Rosa presidente, prese il nome, in lingua esperanto, di Libera Teritorio de la Insulo de la Rozoj (in italiano Libero Territorio dell’Isola delle Rose), trasformatosi poi in Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj (Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose). La Costituzione, il cui primo dei nove articoli scritti in esperanto è dedicato alla collocazione geografica (lungo l’ideale linea retta che congiunge Torre Pedrera a Pola, a 12 chilometri dall’Italia e 120 dalla Jugoslavia), è sottoscritta dai sei governanti. C’era il dipartimento presidenza, con a capo Antonio Malossi; il dipartimento Finanze, presieduto da Maria Alvergna; il dipartimento Affari interni, con a capo Carlo Chierici; il dipartimento dell’Industria e del commercio, capeggiato da Luciano Marchetti; il dipartimento delle Relazioni, guidato dall’avvocato Luciano Molè; infine, il dipartimento degli Affari esteri aveva al vertice Cesarina Mezzini. «Erano tutti amici, condividevamo le stesse idee , purtroppo credo che non ci sia più nessuno in vita, il tempo passa».
Il governo per un po’ continuò la sua attività in esilio: spulciando tra le carte si legge che fu acquistata una barca all’estero battente bandiera del Libero territorio (tre rose rosse su sfondo arancione) come sede provvisoria dell’amministrazione…
«Oltre alla lunga serie di ricorsi, ai quali tra l’altro diede un forte contributo l’avvocato riminese Cleto Cucci (fondatore del Msi a Rimini ndr), l’unico atto del governo in esilio fu l’emissione di nuove serie di francobolli, dedicati all’occupazione. C’è l’immagine dell’esplosione e la frase latina Hostium rabies dirui, La violenza del nemico distrusse (già apparsa nel ’44 su francobolli propagandistici emessi dalla Repubblica sociale italiana, tanto per ribadire come la pensava, altro che Sessantotto ndr).
Alla fine l’unico business fu quello dei francobolli: i foglietti con 10 valori da 30 Mills (la divisa monetaria adottata sull’isola), equivalenti, quindi, a 300 Mills, dovevano essere venduti a 300 lire italiane, anche se i turisti arrivavano a pagarli sulla piattaforma anche 3000, per non parlare i collezionisti nei decenni successivi. Si dice che almeno un esemplare sia finito nelle mani della regina d’Inghilterra, nota filatelica.
«L’ufficio postale era già funzionante e continuarono a indirizzarci lettere e cartoline per mesi e mesi. L’idea era anche quella di coniare la moneta, forse i primi esemplari commemorativi erano già stati battuti. Non è però che volessimo fare concorrenza alla Svizzera. E infatti dalla Svizzera non ci hanno mai ostacolato »
Si sente ancora presidente della sua isola?
«Resto idealmente presidente di un bel niente visto che hanno distrutto isola e repubblica con una doppia carica di dinamite. Il nostro grande nemico, mi è stato detto, fu Paolo Emilio Taviani (politico democristiano ndr). E’ tutto partito da lui, quando era ministro dell’Interno. Poi il suo successore ha proseguito l’opera. La Democrazia cristiana e la Chiesa, si disse, non potevano tollerare l’iniziativa. Si mettevano in giro voci sulla presenza di donnine, spogliarelli, progetti di radio e tv clandestine che in realtà ci furono proposte ma non ci interessavano, della costituzione di basi spionistiche, della possibilità di divorziare. La realtà è che non avevo sponde politiche e non fui abbastanza furbo da rivolgermi alla mafia o alla massoneria». Inviso ai comunisti, suoi grandi nemici, Rosa fu oggetto di attacchi trasversali compresa, perfino, un’interrogazione parlamentare missina.
A Rimini ebbe la solidarietà di qualcuno?
«Non conoscevo nessuno, ma grande collaborazione la trovai nello squero, il deposito di Terzo Rinaldini, dove spesso riparavo gli scafi dell’isola («Bruno», «Lidia», «Topo»). Poi c’era Pietro Bernardini, e i coniugi Luciano Ciavatta e Gianfranca Serra, la mia popolazione. Il primo viveva sulla piattaforma e con la coppia gestiva le prime attività. Quando ormai era troppo tardi qualcuno levò una voce in difesa dell’isola. E seppi anche di una marcia alla quale erano presenti circa duemila riminesi. Sul Carlino lessi poi che al momento della distruzione erano comparsi manifesti listati a lutto: alcuni operatori turistici della riviera lamentavano la scomparsa della piattaforma indicata come elemento di notevole richiamo turistico».
Minacciata, occupata, imbottita di tritolo. Infine cancellata dall’esplosione e dalla memoria. Almeno fino a oggi. Ha mai avuto paura in quei giorni, e come si spiega che non ci sono state conseguenze di alcun genere nei suoi confronti. Davvero non c’era niente “dietro” l’isola?
«Non ho mai avuto paura, neppure da ragazzo sotto le bombe degli americani. O quando scappavo sui tetti dai partigiani. Non avevo fatto niente di male, non potevano mica prendere provvedimenti. Quello che hanno fatto è fuori dal mondo, un arbitrio. Avevo più volte dato informazioni nel corso degli anni a polizia e carabinieri, le autorità erano state ospiti dell’isola anche con le famiglie. Certo, dopo, fui interrogato. Polizia politica. Poi anche da uno dei servizi, il Sid. Volevano sapere, ma non potevo dire altro che quello che dico adesso. Più tardi un agente mi confidò: guardi ingegnere che le hanno messo sotto controllo il telefono… E da allora seppi che i telefoni potevano essere controllati. Non mi ero sentito un eroe prima, né mi sono sentito schiacciato dal mondo, poi. Esterrefatto, sì. Ancora oggi non trovo una ragione a quella reazione eccessiva. Parlarono di sicurezza. Falso. La perizia dell’ingegnere Giuseppe Lombi, per il tribunale, dimostrò che la struttura poteva sopportare senza conseguenze altri cinquanta piani. Impedimento alla navigazione? C’erano autofono e fanali, era conosciuta ai naviganti. Puri pretesti. La libertà faceva paura»
Quali i ricordi più belli?
«Era bello vedere passare le grandi navi a non più di 50-100 metri quando era buio. Ho trascorso delle notti sull’isola. Si vedeva la costa illuminata, il grattacielo. Anche di giorno si perdeva lo sguardo all’orizzonte, ma per quanto ci si sforzasse non si riusciva a intravedere la costa slava. Non sono un contemplativo. Sono stato un tipo dinamico e non mi sono mai fermato su quello che avevo costruito. Non provo nostalgia per l’isola, sinceramente. Non ci penso proprio, Il sogno dell’isola? Ci fecero pagare anche la demolizione. Meno ne parlo meglio sto. Dalla vicenda, comunque, ebbi un certo ritorno professionale anche se poi gli unici progetti di utilizzo del mio brevetto (un trampolino per tuffi al largo della Tunisia e un albergo su acque italiane in Veneto) non si concretizzarono mai».
Ci tiene ad apparire un uomo concreto, un affarista, ma ha mai provato a pensare alla sua isola in maniera diversa: non un mancato affare del passato, ma un luogo dello spirito, una specie di opera d’arte.
«Non è il mio campo: sono un ingegnere. Per di più ateo. L’unica opera d’arte che ho commissionato è il mio monumento funebre alla Certosa».
P.S.: Doveva essere la statua di un giovane che sparge petali di rose, non credo se ne sia fatto niente. A partire da questa vecchia intervista, però, è rinato l’interesse per l’Isola, vero monumento alla memoria dell’ingegner Rosa.
Giorgio Rosa morì nel marzo del 2017. Il ricordo del figlio Lorenzo.