I venti di guerra e le conseguenze sul Nagorno-Karabakh

Non mi stancherò mai di ripetere che per comprendere appieno la crisi ucraina occorre avere una visione di insieme di quello che è successo nello spazio post-sovietico a partire dagli anni novanta. Isolare il conflitto odierno dal contesto geopolitico da cui origina causa evidenti errori di valutazione. La guerra di oggi è stata preceduta da altri conflitti che presentano molti tratti sovrapponibili per quanto riguarda la genesi, la dinamica, gli sviluppi e la gestione. Conoscere quello che è accaduto prima ci aiuta a capire meglio quello che sta avvenendo adesso.

Delle sei ex repubbliche dell'Unione sovietica che si trovano in Europa l'unica a non essere mai stata interessata da una guerra è la Bielorussia. Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia e, oggi, l'Ucraina sono alle prese con conflitti che, con l'eccezione di quest'ultima, si trascinano dal giorno della frantumazione dell'Urss. Tutti questi conflitti sono pilotati direttamente o indirettamente da Mosca che non ha mai fatto mistero di considerare le ex repubbliche sovietiche come paesi satelliti a sovranità limitata da trattenere in tutti i modi nell'orbita russa.

Per Vladimir Putin la fine dell'Unione sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo. Da allora la politica estera russa ha avuto come obiettivo la divisione, la destabilizzazione, la dominazione e, come ultima ratio, la distruzione dei paesi vicini che non accettano i diktat del Cremlino. Transnistria, Ossezia meridionale, Abchazia e Nagorno-Karabakh erano regioni quasi sconosciute in Europa occidentale divenute, in seguito, tristemente famose per le guerre di cui sono vittime.

In Nagorno-Karabakh, peraltro, l'ultimo atto del conflitto si è consumato nell'ottobre del 2020 con più di 7000 morti. Le relazioni fra Armenia e Azerbaigian erano turbolente già prima della fine dell'Urss proprio a causa di questa regione in territorio azero popolata in prevalenza da armeni. Con l'accordo mediato da Mosca due anni fa 2000 soldati russi presidiano il cessate-il-fuoco faticosamente raggiunto dalle parti. Non si tratta, però, di una vera pace. Da trent'anni Armenia e Azerbaigian sono in guerra e per trent'anni hanno negoziato inutilmente una soluzione che mettesse fine alle ostilità. La Russia ha sempre giocato un ruolo chiave nel conflitto rifornendo di armi entrambi i paesi, siglando un'alleanza militare con l'Armenia ma allo stesso tempo alimentando le rivendicazioni degli azeri.

Nessuna pace è possibile senza il volere di Mosca, era il segreto di Pulcinella che circolava nei corridoi della diplomazia internazionale. Grazie a questo conflitto la Russia poteva controllare entrambi i paesi obbligandoli, di fatto, ad allinearsi alle sue ambizioni di stampo imperiale. La pace, per dirla senza mezze parole, non era, e non è, nell'interesse di Putin. Da quando è scoppiata la crisi ucraina, però, si sono improvvisamente aperti nuovi scenari nel Caucaso meridionale.

La diplomazia di Bruxelles è entrata in gioco facilitando incontri bilaterali ai massimi livelli. Sono già quattro i colloqui che si sono tenuti negli ultimi tempi fra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev con la mediazione europea. L'ultimo si è svolto a Praga il sei ottobre scorso ai margini della prima riunione della Comunità Politica Europea, l'organismo voluto da Emmanuel Macron per rilanciare la cooperazione fra tutti i paesi del vecchio continente. L'ambizione dichiarata dai due leader è quella di concludere un accordo di pace entro la fine dell'anno. Mai in precedenza le parti si erano spinte così avanti fino al punto di impegnarsi al riconoscimento reciproco dell'integrità territoriale e, quindi, implicitamente dell'appartenenza del Nagorno Karabakh all'Azerbaigian salvo definirne, in seguito, lo status.

Una commissione bilaterale è già al lavoro per arrivare a un'intesa sulla demarcazione dei confini. Per prevenire nuovi incidenti l'Ue, su sollecitazione dei due contendenti, ha inviato quaranta osservatori sulla linea di frontiera. Allarmato dai nuovi sviluppi Putin ha provato a rientrare in gioco convocando lo scorso 31 ottobre, a sua volta, Pashinyan e Alyiev sul mar Nero per ristabilire la sua leadership sul processo in corso ma l'incontro si è concluso con un nulla di fatto. Il treno dei negoziati è in marcia e per la prima volta l'autocrate del Cremlino non si trova alla guida della locomotiva. Distratta dallo sforzo bellico in Ucraina la Russia ha involontariamente spianato la strada alla pace, anche se per adesso solo a parole, fra Armenia e Azerbaigian mostrando di non essere la soluzione del problema ma, al contrario, il problema. Sono, purtroppo, tanti quelli che in Italia giustificano, più o meno consapevolmente, l'aggressione russa all'Ucraina. Da quello che succede nel Caucaso, però, si può trarre un'utile lezione.

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