«Quando ho sentito la condanna a 24 anni ho chiuso gli occhi e me lo sono visto già libero, davanti al cancello di casa. Non posso pensare che la vita di mia figlia valga così poco». Antonella Mescolini è seduta accanto al marito, Gianluca Bravi, nel salotto di casa. Il sorriso di Elisa è ovunque. «Avevamo fatto un capolavoro», dicono pensando alla figlia che hanno perso ormai un anno e mezzo fa, uccisa a 31 anni appena per mano del marito, Riccardo Pondi. Non si sono mai chiusi nel lutto; sono genitori e nonni ai quali non è stato concesso di trasmettere le ansie vissute durante un processo che si è appena concluso, e che probabilmente attende almeno un altro grado di giudizio prima di una sentenza definitiva. «Si parla del fine pena mai - riflettono -. Sono cose più grandi di noi. La condanna che non finirà mai è la nostra, finché avremo la forza di respirare».
Signora Mescolini, signor Bravi, speravate in una sentenza diversa?
«Doveva finire con l’ergastolo. Quali sono le attenuanti? L’aver chiamato i soccorsi quando era già morta da 20 minuti. Sì, ha confessato; doveva forse scappare? Ha donato tutto alle figlie, sarebbe comunque andato tutto a loro? Ha commesso delle cose terribili, si sarebbe potuto fermare e non l’ha fatto».
Non è stato facile affrontare il processo, immagino...
«Forse la cosa più dolorosa, a parte ascoltare lunedì tutta la sequenza dell’aggressione, è stato realizzare che se Elisa non avesse reagito, se avesse subìto in silenzio senza ribellarsi, sarebbe ancora viva».
Era un altro Riccardo quello che avete conosciuto 11 anni fa?
«Gli ho voluto bene come fosse un figlio (
dice la madre di Elisa). Non ci è mai piaciuto, ma era la scelta di Elisa, lei era felice. Lui era un bravo ragazzo, cresciuto in maniera “inquadrata”, ma fare il marito, fare il padre, non era cosa per lui».
Si è detto durante il processo di una deriva iniziata tre mesi prima del delitto. Lei, signora, lo aveva capito...
«Con lui parlavo tanto. Era dimagrito. Gli avevo detto che il corso che stava facendo per i vigili del fuoco non era alla sua portata. Ma lui ci teneva. Mentre Elisa emergeva nel suo lavoro, lui arrancava. Aveva un complesso di inferiorità. Erano in crisi, sì, lui venne da me convinto che Elisa lo stesse tradendo, provai a rassicurarlo ma disse che ero di parte. Lui era così, sempre certo di avere ragione ed evasivo verso il confronto».
Elisa invece...
«Lei era cresciuta con un modello di famiglia, la nostra, che forse l’ha indotta a resistere finché ha potuto, cercando anche di proteggerlo. A volte diceva “
mamma abbracciami”. Era una richiesta di aiuto. Le abbiamo detto di andarsene e tornare qui, ma lei ci credeva in quel progetto di vita».
Poi li avete visti la sera prima che fosse uccisa, il 18 dicembre. Avete sospettato qualcosa?
«Quel giorno l’ho sentita diverse volte. Le ho detto “lascialo là” quando è partita per l’ospedale di Bologna per prendere Riccardo che diceva di essere stato avvelenato. Poi sono venuti qui la sera. Elisa sorrideva. Lui era come al solito, musone, un po’ stranito, ma sembrava una cosa normale data la giornata».
Signor Bravi come è stato rivederlo in tribunale?
«All’inizio ho provato una gran pietà per lui, sono stato male. Ho sperato che si suicidasse, non per un piacere personale, ma perché finisse la sua pena. Poi ho sentito le falsità che ha detto durante il processo, non ho visto alcun segno di pentimento, né senso di colpa».
Avete mai pensato a una possibile seminfermità, come ipotizza la difesa?
«Lui aveva degli attacchi di panico. Basta. Si vedeva che era un uomo che tratteneva la rabbia dentro. Ripensando a quella notte, quando lui ci ha chiamato dicendo “correte subito”, rivediamo nostra figlia e quello che le ha fatto. E quando vado al cimitero a trovare Elisa le dico “tranquilla, le tue bambine sono salve”».