Forlì, Centro uomini maltrattanti: nel 2024 erano 139 gli utenti in carico
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Quando, nel 2012, il centro trattamento maltrattanti di Forlì ha aperto le proprie porte agli autori di violenze, il paziente preso in carico era solo uno mentre 5 anni più tardi erano 28. La realtà di via San Martino ha chiuso il 2024 con 139 utenti presi in carico con un andamento esponenziale che è andato, anno dopo anno, in crescendo. Dati, questi, che sono frutto anche dell’introduzione, attraverso il codice rosso dell’obbligatorietà di seguire un percorso nell’ottica di una assunzione di responsabilità della violenza da parte di chi la commette. «L’obbligatorietà – spiega Daniele Vasari, psicoterapeuta e fondatore del centro – scatta quando la persona patteggia la condanna e subentra così la presa in carico delle persone che hanno commesso reato di violenza. Al momento sono 50 le persone che stanno seguendo un percorso”. Una obbligatorietà introdotta dall’articolo 165, comma 5, sulla scia delle norme sovranazionali. «Io sono sempre stato contro l’obbligatorietà di percorsi di questo tipo ma devo essere obiettivo e ammettere che talvolta l’obbligatorietà è un gancio per far arrivare da noi persone che altrimenti non sarebbero mai venute – riflette Vasari –. Lo svantaggio di un percorso obbligato, dall’altra parte, è che manca la motivazione. In caso, tuttavia, di adesione inadeguata al programma o di recidive interrompiamo il percorso e lo comunichiamo agli enti preposti».
A determinare obiettivi e modalità di azione dei centri per uomini autori o potenziali autori di violenza di genere è la Conferenza tra Stato e Regioni. L’obiettivo è chiaro: incoraggiarli a adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di modificare i modelli comportamentali violenti e a prevenire la recidiva. Per farlo è indispensabile una netta assunzione di responsabilità della violenza da parte degli autori e il riconoscimento del suo disvalore in quanto modalità relazionale e di risoluzione del conflitto, così come l’attuazione di un processo di cambiamento per il superamento degli stereotipi di genere e di ogni forma di discriminazione, disuguaglianza e prevaricazione. Si tratta di un percorso composto da 50 incontri. «Le persone – prosegue Vasari – pagano per questo tipo di percorso una cifra convenzionata che quest’anno è di 50 euro ad incontro individuale».
I programmi per gli autori di violenza si basano sulla convinzione che sia possibile intraprendere un cambiamento, poiché la violenza, nella maggior parte dei casi, è un comportamento appreso e una scelta, che si possono modificare attraverso l’accompagnamento e la responsabilizzazione. «La prima cosa che spesso ci sentiamo dire è “anche mio padre era così” – esemplifica lo psicoterapeuta –. L’aggressività fa parte di ogni essere umano ma l’agire violento è sempre una scelta».
Per azzerare le vittime di violenza è dunque necessario agire dal punto di vista culturale. «Se consideriamo che nel 1968 c’era ancora il delitto d’onore e che centri come il nostro, in Italia, ci sono da meno di 20 anni, si capisce che c’è tantissima strada da fare – ragiona –. Oggi quello che si può pensare di fare è rivoluzionare il nostro sistema educativo, troppi ragazzi pensano ancora in termini di possesso e dicono alla propria fidanzatina “tu sei mia”. Le nuove tecnologie in questo senso possono acuire il controllo banalmente, ad esempio, attraverso Whatsapp che mostra se si è visualizzato o meno il messaggio. Bisogna invece insegnare ad usare queste tecnologie in modo etico».
Impossibile stilare un identikit del violento che interessa qualunque fascia d’età, provenienza sociale o etnia. «Abbiamo utenti dai 20 agli 87 anni – spiega Vasari –. È chiaro che se una persona anziana viene nel nostro centro è solo perché è stato preso tardi e magari la moglie, per 30 o 40 anni, ha accettato un certo tipo di comportamento e poi ha detto basta ed ha denunciato». Gli utenti che sono presi in carico dai centri sono dunque la punta di un iceberg. «Ci sono certamente tanti soggetti che non accedono ai nostri servizi perché la donna non ha ancora avuto il coraggio di denunciare e sono le figure dei professionisti quelle tra le quali la violenza fa più fatica ad emergere – dice Vasari –. Nelle famiglie prese in carico dai servizi è invece più facile che condotte violente possano venire alla luce». Un tassello mancante è poi quello finale. «Al momento non sappiamo se la persona che ha intrapreso un percorso nel nostro centro ha proseguito nelle sue condotte o meno – conclude Vasari – manca dunque questo aspetto finale che in alcuni paesi, come quelli anglosassoni, è presente e permette di verificare dati alla mano le recidive tra chi segue il programma».