Federico Fellini e le "matte" di Tobino
RIMINI. «Anni fa ho letto Le libere donne di Magliano di Mario Tobino. L’autore fa il medico in un ospedale psichiatrico che si trova a Magliano e ha scritto sui pazienti in modo poetico e sensibile. Ne ha scritto con una tenerezza che mi ha toccato, anche perché mi sono sempre identificato con la pazzia».
È nella lunga intervista raccolta dalla giornalista americana Charlotte Chandler nel corso dell’ultimo decennio della vita del Maestro riminese che Federico Fellini torna a parlare di Mario Tobino – medico e scrittore, nato a Viareggio nel 1910, scomparso nel 1991 – e di quel libro pubblicato nel 1953 che tanto lo aveva affascinato. Ne voleva fare un film, ma finì nell’elenco dei progetti rimasti alla fase embrionale: non più di un soggetto, scritto a quattro mani con Tullio Pinelli, come ricorda il biografo Tullio Kezich.
Dove è finito?
Il testo è sparito da ogni archivio. Forse cestinato. Restano poche testimonianze di quel lavoro al quale Fellini aveva iniziato a pensare subito dopo l’uscita de Il bidone e prima de Le notti di Cabiria. Resta, unica testimonianza, la trascrizione che la celebre rivista francese Cahiers du cinéma, diretta da André Bazin, fece del resoconto di Fellini sul soggetto: nel numero 68 del febbraio 1957 troviamo come il regista aveva concepito il contenuto e il senso del film, discostandosi però in varie parti dal libro.
Dal libro al trattamento
In Le libere donne di Magliano Mario Tobino – Premio Strega con il romanzo Clandestino del 1962 e Premio Campiello nel ’72 con Per le antiche scale – raccontava la vita nel reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Maggiano (località in provincia di Lucca, trasformata nel libro in Magliano) dove lavorò come medico dal 1942 al 1980.
Nel trattamento che ne fa Fellini il protagonista, che chiamerà Roberto, è colto non tanto e solo nel suo lavoro all’interno del manicomio, ma anche nel suo avventurarsi notturno nelle vicine Viareggio e Lucca.
«Ciò che mi ha soprattutto interessato di questo libro – riferiva Fellini nel testo apparso sui Cahiers du cinéma – è la prospettiva e il fascio di luce amorevole che inonda queste sfortunate. Nulla di psicoanalitico, di tecnico, nessun riferimento alla tale o talaltra concezione scientifica o parascientifica della follia. I matti sono esaminati sotto una luce di tenerezza e la vita nel manicomio non ha nulla di particolarmente algido o tecnico. Tutto è semplicemente una specie di vita monastica».
Parlando del protagonista, lo definisce un «uomo istruito, sensibile, tormentato, che finora ha vissuto in maniera edonistica»: si tratta, «in breve (di) un vitellone» cui «una sorta di pigrizia, di torpore spirituale lo porta a cercare, sempre più in basso, qualcosa che possa fornirgli un senso più preciso della propria vita».
Il film, nelle intenzioni, dovrebbe raccontare un anno di vita del protagonista, nelle cui avventure notturne troviamo in compagnia di un gruppo di colleghi, «altri cinque o sei vitelloni». Roberto si innamora di una giovane a Lucca («rappresenta la famiglia, una promessa di vita tranquilla»), quindi insieme agli amici va alla ricerca, in un hotel di Montecatini, di una donna «dal corpo splendido, generoso», un «corpo di donna idealizzata».
Impossibile non notare elementi, e personaggi, che il regista svilupperà nei film successivi.
Prima di Cabiria
Quelle di Tobino sono pagine, scritte in forma di diario, toccanti e luminose. Non stupisce abbiano attratto un Fellini poco più che trentenne, che di lì a poco avrebbe creato tra l’altro il personaggio della ingenua (e un po’ matta) prostituta Cabiria. «Ritorno da un giro notturno per i reparti femminili – scrive Tobino nel romanzo –, gradatamente dai reparti tranquilli agli agitati l’erotismo si fa più selvaggio e gradatamente aumenta l’acuto rancido della bestia umana. Altre “agitate” dai letti, in camicia, nude, si lanciavano verso di me, che fuggivo. L’infermiera che cercava di trattenerle rideva piena di malizia come a dire che era così anche in tutte le altre donne, ma “le altre”, quelle fuori, non potevano perché erano “sane”».
Cosa ne pensava Kezich
Per il biografo di Fellini Tullio Kezich, il regista «è colpito dalla descrizione di una “città delle donne” avanti lettera: una specie di girone d’inferno dove una folla di femmine scatena bestiali furori in mezzo a illuminazioni e dolcezze altrettanto sorprendenti. Il tutto sullo sfondo di una civiltà contadina in cui dominano i valori fondamentali della vita, non esclusa una forte carica di animalesca sensualità».
Già nel settembre del 1955, in una breve notizia il Corriere della sera riportava una dichiarazione del regista, già celebre grazie ai film I vitelloni e La strada (Oscar miglior film straniero), su una ipotetica «intenzione di tradurre cinematograficamente il romanzo di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano».
A Maggiano con Pinelli
Fellini si recò anche a Maggiano, insieme a Pinelli, per visitare il manicomio e vi restò, stando a sue dichiarazioni, diverse settimane. I contatti con Tobino per la realizzazione del film sono documentati nei diari dello scrittore, custoditi dall’omonima Fondazione presieduta dalla nipote Isabella Tobino. «Mio zio aveva ricevuto una proposta anche da un altro produttore, ma preferì dare la liberatoria a Fellini» rivela, annunciando che è in corso un lavoro di ricerca, affidato al professor Marco Vanelli, studioso di cinema e letteratura, sui rapporti tra il grande regista riminese e il medico scrittore, proprio basandosi su materiali ancora in parte inediti, come i diari di Tobino.
«Dedicheremo il prossimo numero della rivista di cinema che dirigo, Cabiria, a Fellini – fa sapere Vanelli –. Lo studio sui rapporti tra lui e Tobino è al centro di una ricerca che mi impegnerà nei prossimi mesi».
Nel frattempo, l’ex manicomio di Maggiano è stato inserito tra i luoghi del cuore del Fai: votandolo, si potrà contribuire alla raccolta fondi per la sistemazione dei locali che ospitavano il preziosissimo patrimonio librario (da poco restaurato e riportato a Lucca) della biblioteca dell’ex ospedale.
Il progetto su Le libere donne di Magliano è rimasto fino alla fine nei pensieri di Fellini, e vi attingerà più esplicitamente, per sua stessa ammissione, nell’ultimo film La voce della luna, che come è noto è in primo luogo ispirato al Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Vi fu però, all’origine del film, anche «un’altra seduzione – dirà il regista in una intervista televisiva a Vincenzo Mollica –, riferita a un progetto con il quale avevo convissuto abbastanza a lungo, era un libro che lessi venticinque anni fa e che mi sedusse, mi piacque moltissimo, un libro di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano». «Ho vissuto a lungo con questa fantasia – continua il regista –, con questo racconto che avevo immaginato, poi il film non l’ho mai fatto perché mi aveva un pochino turbato il vivere quella libertà così totale, e anche infernale (…) ma qui è ritornato un po’ a galla».