Tour de France: l’omaggio a Ercole Baldini a Faenza, i figli donano il loro vino a Prudhomme VIDEO GALLERY

Il Tour de France ha reso omaggio al grande Ercole Baldini. In piazza del Popolo a Faenza, il direttore Christian Prudhomme, ha consegnato nelle mani dei familiari del “treno di Forlì”, vincitore di una tappa della Grand Boucle nel 1959, un riconoscimento alla memoria. Faenza è il punto della seconda tappa più vicino a Villanova, dove abitava Baldini e ha ospitato la piccola cerimonia sotto uno splendido sole in Piazza del Popolo. Prudhomme ha salutato i figli di Baldini, Mino e Riziero, e il fratello Bruno Baldini e ha consegnato al sindaco Massimo Isola la maglia gialla di Romain Bardet, vincitore della tappa Firenze-Rimini. I figli di Baldini hanno donato a Prudhomme una bottiglia di vino di loro produzione.

Un tuffo nella storia

Chi è stato davvero Ercole Baldini? Un novello Campionissimo o una meteora, incapace, dopo gli exploit del biennio 1956-1958, quando vinse, fra gli altri, Olimpiadi, Mondiali, Giro d’Italia e stabilì il nuovo record dell’ora, di ripetersi su quei livelli? L’ex firma della Gazzetta dello Sport Marco Pastonesi non ha dubbi e lo definisce “una superstella”. D’altra parte, era già stato dello stesso avviso il giornalista Rino Negri, che lo seguì durante tutta la sua carriera: «Ercole Baldini fu campione veramente. Seppe vincere dappertutto su pista e su strada, nell’applicazione della sua virtù essenziale: la potenza». Per questo, dopo essere entrato nella Hall of Fame del Giro d’Italia, accanto a miti come Eddy Merckx, Felice Gimondi, Stephen Roche e Francesco Moser, oggi sarà omaggiato anche dal Tour de France. Il Treno di Forlì, però, al Tour non brillò mai anche perché la prima partecipazione è datata 1959, quando iniziò la sua parabola discendente. Dopo che l’anno prima aveva vinto Giro e Mondiali, ci si aspettava che andasse in Francia per conquistare la maglia gialla, invece, la nuova stagione partì subito male: il 21 febbraio venne operato d’urgenza di appendicite e fu costretto a interrompere la preparazione, poi, appena riprese a correre, si ammalò di broncopolmonite, curata con antibiotici. Pur debilitato e a corto di preparazione decise di partecipare ugualmente al Giro ciclomotoristico ma un problema al ginocchio destro lo costrinse al ritiro.

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Malandato e in sovrappeso di almeno 5 chili, prese ugualmente parte al Giro d’Italia, con risultati deludenti. Rinfrancato dal trionfo nel Trofeo Tendicollo nella sua Forlì e desideroso di riscattare un Giro al di sotto delle attese, si iscrisse al Tour, dove riuscì a conquistare una tappa, la numero 18 da Le Lautaret, nelle Alpi Francesi, ad Aosta, di 243 chilometri. A Parigi, finì sesto nella classifica generale, primo e unico azzurro nei 10. Fu quello il suo miglior piazzamento, seguito dall’ottavo posto nel 1962.

L’impresa Mondiale

Se il Tour non gli riservò grandi soddisfazioni, in terra di Francia, Baldini realizzò, tuttavia, una delle sue maggiori imprese, vestendo la maglia iridata ai Mondiali di Reims del 1958. Si corre il 31 agosto, in una giornata nebbiosa: la gara si svolge su un circuito di 19,77 km, con uno strappo impegnativo, da ripetere 14 volte per un totale di 276,794 chilometri. Dopo appena un giro, Baldini entra subito nella fuga promossa da Bobet, poi, quando mancano 70 chilometri all’arrivo, scatta e nessuno è in grado di tenere la sua ruota: malgrado i 260 chilometri in fuga, ha talmente tanta energia in corpo che nel penultimo giro fa segnare la media più alta della corsa e al traguardo precede di 2’09’’ Bobet e di 3’47’’ Darrigade.

“Il marchio dell’intelligenza e del coraggio”

«Bisogna, dunque, dire che il trionfo del romagnolo porta il marchio dell’intelligenza e del coraggio, oltre che della particolare, eccelsa classe atletica di passista: e concludere che nessun altro campionato del mondo ha visto così autoritario dominatore da cima a fondo, né così degno, ammirevole, vincitore». Così saluta il trionfo di Baldini il grande giornalista Giuseppe Ambrosini, allora direttore della Gazzetta dello Sport. La più grande affermazione fu al tempo stesso il suo canto del cigno. Di lì in avanti, infatti, il treno di Forlì, da fuoriclasse che era, si trasformò in un corridore «capace ogni tanto di sferrare un colpo vincente per poi rientrare nei ranghi della mediocrità». Tutto ciò, però, non ne ridimensiona la figura, come sintetizza bene Dino Pieri nel suo “La Romagna del pedale”. «Baldini ha rappresentato un’epoca del nostro ciclismo, ha colmato il vuoto venutosi a creare col tramonto degli assi Bartali e Coppi, fino all’avvento di Adorni, Zilioli, Motta. Le sue vittorie clamorose, in una successione esaltante, quale non si era mai verificata, suscitarono, complice la televisione, che permetteva a un pubblico vastissimo di seguire le corse in presa diretta, un entusiasmo incredibile. Le gambe dell’atleta di Villanova, eliche vive spinte da un possente motore, la sua posizione aerodinamica in bicicletta, col torace parallelo al tubo orizzontale del telaio, l’elegante compostezza che non tradiva lo sforzo, ne fecero un’icona e spinsero giornalisti imprudenti a gridare al miracolo di un nuovo Coppi. Di qui la rabbia dei tifosi che, accecati, dai successi del loro campione, non riuscirono a tollerarne il declino». Proprio perché era alto il piedistallo su cui l’avevano issato, più fragorosa fu la caduta, con gli applausi che si tramutarono in fischi. Baldini, uomo di poche parole, soffrì sempre in silenzio, senza mai accampare scuse. Campione sui pedali, lo fu anche una volta appesa la bici al chiodo. «Una prodezza riservata a pochi, pochissimi – commenta Pastonesi –. Perché era generoso, riconoscente, buono. Da Villanova, andava e tornava in macchina divorando chilometri a velocità superiori al normale (così come faceva in bici) per presenziare, omaggiare, ingigantire una manifestazione, un appuntamento, un evento. Quando si muoveva, muoveva anche la storia». Umiltà e sobrietà furono la cifra di tutta l’esistenza di Baldini, che non si stancava mai di ripetere quale fosse per lui il lascito più importante del ciclismo. «Non è stato solo uno sport da cui ho ricavato grandi soddisfazioni, ma una scuola di vita. Quando ho lasciato la bici e sono entrato nel mondo del lavoro, svolgendo diverse attività, mi è sembrato tutto più facile: le prove e le sofferenze da superare in ambito professionale erano nulla rispetto a quelle affrontate da corridore».

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