Centro massaggi a luci rosse a Faenza: “Era prostituzione”

Luci soffuse e corpi nudi, integralmente. Sia quelli dei clienti, sia quelli delle massaggiatrici. Tutta “filosofia”, quella tantrica, almeno così sostenevano i gestori del centro Sahsrara di Faenza, prima che la polizia chiudesse l’attività al civico 18 di via Mengolina, nell’ottobre del 2019. Perché a furia di strusciamenti e manipolazioni, il salto dal massaggio alla masturbazione pare fosse questione di poco, a fronte di lauti guadagni promessi alle professioniste adeguatamente formate. Che pur consenzienti - questa l’idea della Procura - erano disposte a compiere veri e propri atti sessuali retribuiti: in una parola, prostituzione. Non di per sé reato, ma gestita mascherando il tutto sotto il velo di un centro massaggi “non convenzionale”. Di questa idea anche il collegio penale di Ravenna, presieduto dal giudice Cecilia Calandra (a latere Federica Lipovscek e Cristiano Coiro), che ieri ha condannato per induzione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione a due anni Nunzio Michele Acella e a un anno e quattro mesi Nadia Ohanian. Assolta invece Maria de Vincenzo, in qualità di legale rappresentante del centro.
L’origine dell’inchiesta
L’inchiesta nasce sull’onda di un’indagine che già alla fine del 2017 mise gli occhi su una serie di centri olistici e pratiche tantriche in diverse filiali aperte in cinque regioni d’Italia. Ad alimentare i sospetti, l’11 novembre dell’anno successivo, era stata una segnalazione inizialmente anonima giunta al commissariato manfredo. Per il sostituto procuratore Raffaele Belvederi nessun dubbio su come definire le pratiche avvenivano nelle stanze. Nell’annuncio la chiamavano “Lingam”, eseguita toccando le zone intime del cliente, che spesso si concludeva con il cosiddetto “happy ending”. Spiegazioni date anche al telefono, lasciando ben intendere - secondo il pm - «quale fosse la finalità dell’incontro». Si diceva “tutte belle ragazze italiane, tra i 20 e i 30 anni”. Un’attività strutturata anche con centraliniste, alle quali veniva raccomandato di fornire l’indirizzo solo dopo la prenotazione. Insomma, quanto basta per chiedere la condanna per i due gestori a 3 anni.
La difesa
Pacifico che quello non fosse un centro massaggi tradizionale, anche secondo le difese. Per l’avvocato Enrico Ferri, codifensore della gestrice del centro insieme al legale Lorenzo Valgimigli, il fatto che fosse strutturato con una segretaria sarebbe «dimostrazione che ci si fosse posti il dubbio di un possibile travisamento da parte dei clienti dovuto all’immaginario collettivo». Inoltre «veniva precisato che non fosse una prestazione sessuale, avvisando sulle possibili conseguenze del massaggio, frase che significa che quella non era la finalità». Oltretutto - continua la linea difensiva - «le operatrici venivano formate almeno tre volte l’anno, pure sulle tecniche per prevenire disagio o imbarazzo, e qualsiasi interazione provocava l’interruzione del trattamento». Dettagli che avrebbero dovuto fare la differenza, spostando la bilancia verso l’assoluzione.
Quanto all’accusa, invece, il doppio senso era pane per gli annunci pubblicati dai gestori, confluiti in circa 50 minuti di performance pagata 100 euro. Se i due responsabili ne erano a conoscenza, non è certo però che ne fosse consapevole la terza imputata, per la quale è stata chiesta l’assoluzione con formula dubitativa per non aver commesso il fatto.