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Violenta, dolce, commovente. Il viaggio di Fellini nella morte

«Non è possibile! Con tutte le mie forze, con tutta la mia passione, con tutta la mia intelligenza, tutto il mio cuore io grido: non è possibile che la morte sia questa!». È un momento centrale de Il viaggio di G. Mastorna, il più celebre dei progetti cinematografici di Federico Fellini rimasti incompiuti. Ci resta la sceneggiatura, un testo scritto da Fellini (con la collaborazione di Dino Buzzati e Brunello Rondi) nella seconda metà degli anni Sessanta e che si legge come un racconto, il racconto di un viaggio in uno strano, rumoroso, caotico, onirico aldilà. Ragioni di scaramanzia (oltre che produttive) hanno fatto desistere il regista dal trasformarlo in opera cinematografica: era stato il sensitivo torinese Gustavo Rol, personalità che esercitava su di lui un grande ascendente, a suggerirgli di starne lontano.

Ma il tema della morte, Thanatos per i greci (e per la psicanalisi, in contrapposizione e dialettica con Eros), è pressoché onnipresente nei capolavori felliniani. E anche Il viaggio di G. Mastorna, pur messo prudentemente nel cassetto, è come un corpo vivente le cui carni, muscoli, pelle, ossatura, possiamo ritrovare disseminate nei film successivi del maestro riminese.

Progetto spartiacque – esiste un Fellini prima e dopo Mastorna, è stato detto – ha una prima evidente “incarnazione” in Toby Dammit (1968), mediometraggio poco o per nulla conosciuto dal grande pubblico, che faceva parte di un film collettivo a episodi, Tre passi nel delirio, tutti ispirati a racconti dello scrittore americano Edgard Alan Poe. Il film termina con la decapitazione del protagonista – l’attore Terence Stamp, che impersona un giovane attore inglese delirante e ribelle – al termine di una folle corsa a bordo di una Ferrari e di un salto oltre l’abisso su un ponte crollato alla periferia di Roma. La scena del corpo senza testa (presente in sceneggiatura) risulta essere stata tolta: un taglio di censura accolto dallo stesso regista e dalla produzione. Ma vediamo nell’al di là del ponte crollato la testa mozzata venire sollevata da terra da una bambina-diavolo (figura che il regista copia dal maestro dell’horror italiano Mario Bava e quanti altri rimandi e citazioni contiene poi questo finale...).

Ma la morte, nel cinema di Fellini, irrompe sin dai primi film, seppure con toni molto lontani da quelli inquieti della fase della maturità. La troviamo, dapprima violenta poi foriera di straziante commozione, nel primo grande capolavoro del regista riminese, nel film La strada (1954). Muore, per mano del brutale Zampanò, il Matto (l’attore Richard Basehart), muore infine la dolce Gelsomina-Giulietta Masina. E il cuore duro di Zampanò si scioglie, nel finale, nella disperazione.

La morte arriva anche nel film successivo, Il bidone, tra i più dimenticati della filmografia di Fellini: è nella parte conclusiva, quando si chiude tragicamente la parabola del truffatore Augusto (l’attore americano Broderick Crawdford).

«Sarei rimasto volentieri delle ore a veder(lo) morire» scriverà il regista francese François Truffaut.

Poi la morte arriva ancora violenta, assurda, inspiegabile, nel film che alla sua uscita spiazza e seduce il pubblico di mezzo mondo, La dolce vita (1960). Ricordato e stracitato per il bagno di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nella Fontana di Trevi, per la mondanità di Via Veneto, per i paparazzi, ci si dimentica dell’episodio che ha per protagonista l’intellettuale amico di Marcello, Steiner (l’attore Alain Cluny): personaggio raffinato, amante della musica colta, animo all’apparenza tranquillo, buon padre e marito, ucciderà i due figli piccoli e si toglierà la vita.

Se in 8 ½ invece il riferimento alla morte e al morire arriva nella sequenza d’apertura sotto forma di sogno-incubo, e poi con le figure dei genitori del protagonista Guido, che emergono come fantasmi dall’aldilà, sul finire degli anni Sessanta in Fellini Satyricon è tutto un inanellare racconti di morte.

Il senso di caducità, di sessualità mortifera, pervade anche il film Casanova (1976), che segue le avventure del libertino, impersonato dall’attore Donald Sutherland, fino alla vecchiaia e alle soglie della morte.

Anche ne I clown (1970), film per la tv che inizia con un’anticipazione di Amarcord e poi assume la forma della pseudo inchiesta televisiva sui pagliacci, l’ultima parte vira tutta sulla morte, con la messa in scena del funerale di un clown e il ricordo di Frou Frou che si fingeva morto.

In Amarcord, il film più biografico, è addirittura la morte della madre del protagonista a occupare una parte della narrazione. Se infine in Prova d’orchestra (1978) – film fortemente ispirato dal rapimento e uccisione dello statista Aldo Moro – dal caos che scoppia tra gli orchestrali ci rimette la vita una arpista, tra i film degli anni Ottanta la morte diventa tema portante del soggetto stesso de E la nave va, che racconta del viaggio a bordo del transatlantico Gloria N. di un gruppo di persone radunate per celebrare in mare il funerale di una cantante lirica.

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