Un grido nel fango: "Tìn bota"

Abbiamo esaurito le parole e il dizionario dei sinonimi non basta più. La catastrofe è tanta e di tale dimensioni che il termine disastro sembra riduttivo, sciagura anche, apocalisse forse si avvicina alla realtà ma non del tutto. Colleghi giornalisti incontrati al fronte dopo i terremoti dell’Aquila del 2009 e dell’Emilia del 2012, rivolgono spesso la domanda: “A cosa si può paragonare l’alluvione in Romagna?”. Difficile rispondere. Non c’ero, ma dai ricordi di famiglia il Polesine nel 1951 ha vissuto un’esperienza terribile come questa. Le scosse della terra che spezzano muri e soffitti tolgono certezze e punti di riferimento: la casa dove viviamo, la chiesa dove preghiamo, il municipio con i rappresentanti del popolo, le fabbriche e gli uffici dove lavoriamo, diventano all’improvviso luoghi ostili. Tornando all’Aquila tre anni dopo “la malanotte” provai un senso di smarrimento: la città di sera era abitata solo da fantasmi e impalcature con cartelli, peluche e foto sbiadite che ricordavano le vittime di quei palazzi crollati. L’istinto era di fuggire, ma poi prevalse il senso del dovere e restai per raccontare la fiaccolata che ogni anno - sfidando il vento freddo che scende dalle montagne - ricorda le 309 vittime.
A Faenza, Cesena e altre città martiri ho provato, in settimana, la stessa sensazione: dopo il fango e l’acqua assassina, lo choc per i cumuli di rifiuti a perdita d’occhio. Nessuno sa quanto tempo e quante risorse serviranno alla Romagna per rialzarsi. Fatto un conto, raddoppiate la cifra e non sbaglierete. Ripropongo lo sfogo di un emiliano rimasto sul taccuino undici anni fa: «Questa terra mi ha tradito e non riesco a perdonarla».
Lo rivedo oggi negli occhi di chi ha perso tutto e ha bisogno di aiuto. “Tìn bota”, fratello.

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