L'alluvione e la storia dimenticata
Il colore delle alluvioni è uguale a tutte le latitudini e nei secoli. Anche in Romagna, nelle zone sommerse nel Ravennate e nell’Imolese, domina il marrone del fango. L’acqua si confonde con la terra e la terra con l’acqua. Melma e disperazione.
A Faenza, una delle città più colpite, mercoledì mattina molti cittadini affollavano le rive del ponte chiuso al traffico. Uno dei lungofiume è intitolato ad Amalia Fleischer, morta ad Auschwitz nel 1944, “ebrea deportata ” come recita il cartello. Sotto c’è una tabella con la mappa del percorso naturalistico del Lamone.
Sono le due facce del fiume, placido nelle stagioni di magra - sempre più frequenti per i cambiamenti climatici - e furioso quando rompe gli argini, non sempre solidi e in ordine.
La memoria di chi c’era va alla rotta del Po del 2000 quando, per evitare il peggio, fu rotto l’argine a Portiolo in provincia di Mantova e la golena fu sommersa, con le sue case e le aziende agricole.
L’attualità spinge a rileggere i libri di uno scrittore di Rovigo, Gian Antonio Cibotto, “Cronache dell’alluvione” ambientato nel 1951 e “Scano Boa”. O le cronache dei quotidiani dell’epoca: “Valanghe d’acqua si sono riversate nell’Alto Polesine allagando tutta la zona che tra il Po, la Fossa di Polesella e il Canal Bianco si estende per 40mila ettari. Ovunque s’incontrano file interminabili di gente in fuga con appena qualche striminzito fagotto, o con niente, o anche meno di niente, appena vestita, tanto era stato lo spavento e l’impulso della fuga immediata…”.
Fa impressione a distanza di 70 anni raccontare tragedie simili. L’incuria da una parte e la solidarietà dall’altra degli angeli del fango, con e senza divisa, dei sindaci con le occhiaie per le notti in bianco passate a tappare le falle. La storia ci ha insegnato nulla sul corretto equilibrio tra il pianeta Terra e i suoi ospiti: noi.