Tomaso Binga, nome che figura nel novero degli artisti che negli anni Sessanta e Settanta fecero convergere i linguaggi di arti visive, teatro, musica e poesia in un dialogo denso di nuove possibilità, ha ricevuto il 24 novembre il riconoscimento alla carriera del Premio nazionale di poesia dedicato al riminese Elio Pagliarani.
Affermatissima autrice di poesia visiva, sonora e performativa, Tomaso Binga è l’alter ego di Bianca Pucciarelli Menna (Salerno, 1931).
Uno pseudonimo che col tempo si è fuso quasi indissolubilmente con la sua persona, espressione di un’artista che frequenta, coerentemente, da più di quarant’anni, i territori della poesia e della pittura, indagandone i rapporti sottili e le relazioni possibili.
Una scelta dettata dal fine, a suo dire, di porre allo scoperto il privilegio maschile che impera anche nel campo dell’arte, perché «l’artista non è un uomo o una donna ma una persona».
Menna, in che maniera tra scrittura verbo-visiva e poesia sonoro-performativa ha voluto coniugare ironia e femminismo?
«Quando ho scelto di assumere un nome maschile e dunque di uscire allo scoperto l’ho fatto anche per creare un rapporto di partecipazione tra livello culturale e livello personale. Da una parte infatti l’assunzione del nome Tomaso rimanda immediatamente alla figura di Filippo Tommaso Marinetti e dunque alla prima grande avanguardia storica, il Futurismo: nome assunto e anche un po’ canzonato, avendolo adottato e privato di un fonema. Dall’altra, e dunque da una angolazione più intima, Binga è il mio nome, Bianca appunto: ma così come lo pronunciavo da bambina. Ho iniziato a lavorare nel campo artistico fin dai primi anni Sessanta, ma sono uscita allo scoperto solo nel ’71, proprio nel pieno del fervore femminista».
In che maniera questo spirito sperimentale e giocoso si è intrecciato con lo sperimentalismo di Elio Pagliarani?
«Di Pagliarani, grande poeta e instancabile organizzatore di eventi culturali, ho un ricordo alquanto vivido che risale agli anni Ottanta e che vorrei condividere: “Poeti e poesie sulla spiaggia”, un evento organizzato a Rimini nel 1998, in cui Pagliarani, accanto a Giuliani, Sanguineti, Balestrini, Lello Voce e altri, invitò anche me chiedendomi di aprire ogni giornata con una performance».
Come ha reso il corpo e la parola uno strumento di espressione alternativo, elemento fondante di un nuovo modo di comunicare (e con cui ha lasciato il suo segno anche nella recente sfilata parigina di Dior)?
«Esattamente come la scrittura, il corpo è un linguaggio dell’arte che sposta il potere del segno verso quello del gesto. I miei “Alfabetieri” (tra cui quello che lei cita: “Alfabetiere murale”, reso scenografia per la passerella della sfilata autunno/inverno di Dior), sono nati nella seconda metà degli anni Settanta dalla collaborazione con l’amica fotografa Verita Monselles. È nato così il progetto della “scrittura vivente”, di un segno-gesto che tenta di conferire alla scrittura un senso più globale, una polivalenza di significati da opporre a ogni specializzazione riduttiva. Con gli “Alfabetieri” ebbi poi l’idea di riprendere uno strumento scolastico, di farmi fotografare nell’atto di mimare ogni singola lettera per renderlo più flessibile, per aprirlo a un universo fatto di segni e di gesti sonori, di accenti e invenzioni irriverenti, lavorando appunto sul corpo, sul mio stesso corpo di donna che, fuori dalle convenzioni, da ogni connotazione sociale, è divenuto inequivocabilmente lettera e simbolo».
Nel 1974 lei fu tra coloro che fondarono a Roma il Lavatoio Contumaciale, là dove venivano lavati e bolliti i panni delle malattie infettive. Un atto che oggi può apparire, in epoca di pandemia e di chiusura dei luoghi della cultura, come l’emblema di una cultura che allora invece voleva e sapeva rinnovare «idee infette o passatiste».
«Il Lavatoio Contumaciale nacque dall’idea di dar vita a un luogo di dibattito, di condivisione e di partecipazione attiva del pubblico. Era e resta uno spazio di purificazione e di aggregazione, di leggerezza e di disinvoltura, ma anche di rinnovamento culturale. Essere “in contumacia” è, per quel che mi riguarda, la condizione che più di ogni altra appartiene alla mia esperienza, perché la mia poesia è davvero “poesia in contumacia” come recita il sottotitolo di un volumetto che ho realizzato assieme a Vito Riviello nel 2004. E come ha scritto Stefania Zuliani in un bel testo sul mio lavoro, la mia poesia è “da sempre poesia ribelle, latitante, distante dal ‘poeta precotto, dal verso scotto’, è pratica di contagio e di provocazione che non si limita a decostruire il buon senso comune ma vuole proporre un punto di vista diverso, inatteso, un nuovo significato capace di energie più vere, segrete, spiazzanti”».