Simonetta Nicolini, Adolfo Fattori e i "Microsolchi” di Romagnoli
RIMINI. Titoli di canzoni – da “Ma l’amore no” a Mogol-Battisti – a richiamare in ogni vicenda un momento preciso, un’epoca, e storie di incontri mancanti, di solitudini, di domande inespresse, di drammi inconsolabili, di ferite profonde nell’animo. Storie minimaliste dove si racconta di strappi, lacerazioni profonde, spesso seguite da «un faticoso destarsi: il lento, ipoglicemico, riaffacciarsi alla coscienza di sé e del mondo».
Sono i “Microsolchi”, racconti di Renzo Romagnoli raccolti dalla storica dell'arte Simonetta Nicolini e ora pubblicati dall’editore Raffaelli di Rimini con postfazione di Adolfo Fattori e la stessa Nicolini (“Un ragazzo degli anni Settanta”).
Una vita inquieta
Appassionato di fotografia, Romagnoli ha vissuto a Roma dove nacque nel 1960 e dagli anni Ottanta a Bologna dove ha svolto attività per il sindacato e la Regione Emilia-Romagna. I suoi racconti sono come il testamento di una vita inquieta, stroncata nel 2019 da una feroce e rapida malattia, e segno di una bruciante passione narrativa.
Nicolini, lei ha scritto che i racconti lasciati da Renzo Romagnoli hanno costituito «un testamento, il segno concreto di una vita interiore che in altro modo non poteva essere espresso». Perché?
«Per Renzo la letteratura (quella grande, che lui leggeva, si intende) doveva sempre passare attraverso la “carne” dello scrittore, distillata attraverso l’esperienza della lingua e della forma narrativa. Per lui, credo sia stato il solo modo possibile di narrare un vissuto, indicibile altrimenti, carico di emozioni troppo forti per essere accolte come tali dall’ascoltatore».
In quale modo essi si rivelano «un dispiegamento di storie fatte di sconfitte esistenziali»?
«Tutti i racconti sono dedicati a personaggi che non contano niente, le cui vicende non hanno nessun impatto sulla grande storia. Si tratta di storie di nullità esistenziali, appunto, che, come in un miracolo narrativo, assumono invece un valore universale raccontando di ambizioni, fragilità, paure, volgarità comuni. Però, assumono una dimensione che mi piace definire quasi “francescana” per la semplicità e la crudezza alle quali ci introducono: il mondo è cattivo, sembra dire, è brutto, è sciocco, ma è preziosissimo e luminoso nei dettagli insignificanti di vite insignificanti, escluse anche dall’effimero della cronaca».
Adolfo Fattori è sociologo. Tra i suoi saggi “Sparire a se stessi. Interrogazioni sull’identità contemporanea”.
Fino a che punto, gli chiediamo, questo interrogarsi sul passaggio del nostro tempo si può definire il rovello narrativo di Renzo Romagnoli?
«Nel saggio cercavo di esplorare il senso della crisi novecentesca a partire dalla letteratura. Mi aveva colpito una frase che lo spagnolo Enrique Vila-Matas fa pronunciare al protagonista di uno dei suoi romanzi: “Scrivere è uno spossessarsi senza fine. Un morire inesorabile”. Ecco, siamo lì: la scrittura è un modo per riversarsi in un mondo in crisi, per risolvere la propria crisi. Le nostre vite non sono infinite, ma la letteratura sì, forse. Credo che Renzo fosse – inconsapevolmente o meno – su questa lunghezza d’onda. Aveva, forse senza saperlo, una forte immaginazione sociologica. E – d’accordo con un paio di amici – credo che in fondo sociologia e letteratura siano la stessa cosa: descrivono attraverso la scrittura il mondo in cui viviamo, e le nostre vite».
«Siamo le storie che abbiano vissuto, in cui siamo irretiti» si legge nella sua postfazione. Perché per Romagnoli il “momento fatale”, l’increspatura, lo scarto, che sconvolgono le vite dei suoi personaggi, s’identificava sempre nel titolo di una canzone?
«Renzo era un gran conoscitore – e consumatore – di musica. Da solo e in compagnia. E mentre ascoltavamo musica, chiacchieravamo di cinema, di letteratura… La musica ha una qualità apparentemente paradossale: è asemantica e contemporaneamente – forse proprio per questo – estremamente evocativa. Di mondi, storie, ricordi… Penso che la musica che ascoltava – ascoltavamo – innescava la sua immaginazione, fra ricordi e intuizioni. E da lì venivano i suoi racconti. Forse i titoli erano quelli dei brani che avevano funzionato da innesco per la tessitura delle sue “reti di storie”».