Libri: L’americano tranquillo di Graham Greene
Ambientato in Vietnam nei primi anni Cinquanta, questo romanzo di Graham Greene - che torna ora in libreria grazie a una nuova edizione curata, per Sellerio, da Domenico Scarpa - narra il conflitto tra Thomas Fowler, stanco giornalista inglese, e Alden Pyle, spia americana idealista, che “gareggiano” per assicurarsi l’affetto di Phuong, una giovane vietnamita in cerca di un marito occidentale che la salvi da povertà e prostituzione.
Per certi versi, “L’americano tranquillo”, pubblicato per la prima volta nel 1955, racconta in chiave allegorica la fine del colonialismo paternalista europeo in Indocina e l’inizio dell’imperialismo americano; ma è anche e soprattutto un libro che parla di mascolinità, di responsabilità, di problematiche etiche, consentendo al lettore di misurarsi con un universo in cui non abitano personaggi “veramente” morali.
Un romanzo che, ancora oggi, colpisce proprio per la misura che caratterizza la costruzione dei personaggi (anche se quello di Phuong non è mai sviluppato o rivelato del tutto...) e per una scrittura, che evidenzia una forte discontinuità tra il linguaggio usato nei dialoghi e il tenore delle descrizioni e delle riflessioni, in grado di mescolare stili, generi e voci. Una prosa, quella dello scrittore inglese, così caratteristica da avere suggerito la definizione di “Greeneland” per indicare l’atmosfera evocata nei suoi romanzi, fatta di immagini che nascono dall’accostamento di termini, attributi, concetti, inaspettatamente associati allo stesso oggetto; e nella quale appaiono evidenti i riferimenti a certe forme espressive tipiche della modernità come il giallo o il cinema da cui, per esempio, Greene mutua la “velocità” e il gesto rivelatore, mostrando come sia possibile trasferire la tecnica del montaggio nella scrittura del racconto.
Molte altre cose ci sarebbero da dire ma, forse, bastano le parole utilizzate da Zadie Smith nell’introduzione a “L’americano tranquillo”: <“Dovevo trovare una religione” scrive Graham Greene “contro cui misurare il mio male”. Greene, “lo scrittore cattolico” (definizione che odiava), è così collocato nella giusta prospettiva: prima ancora di scegliere Cristo come suo valore supremo, era stato un uomo ossessionato dalle gradazioni in sé. Nessuno scrittore del Ventesimo secolo ha avuto una mente più incline al confronto tra esseri umani. Laddove romanzieri meno capaci ricorrono a tratti marcati per distinguere il personaggio buono da quello cattivo, Greene è stato il maestro della caratterizzazione multipla, di quelle linee sottili che separano il male dalla crudeltà, dalla rozzezza, dall’ottusità ostile. I suoi personaggi vivono dentro un sistema morale meticolosamente calibrato. Falliscono per gradi. Così, alla fine, non esiste realmente un modo di essere buoni nei romanzi di Greene, ma solo un milione di modi per essere più cattivi>.