«Avevo sedici anni il 15 novembre 1943 e ad arrestarmi furono i carabinieri, non i tedeschi». Così Corrado Israel De Benedetti ricorda la notte dell’eccidio fascista narrata da Giorgio Bassani nel racconto “Una notte del ’43”, al quale il regista Florestano Vancini s’ispirò per il celebre film “La lunga notte del ’43”.
De Benedetti era tra i 72 cittadini arrestati, otto dei quali furono fucilati davanti al muretto del Castello Estense e tre in altri punti della città. Dopo alcuni mesi riuscì a fuggire e insieme alla sua famiglia trovò rifugio prima a Faenza e poi sulle colline di Brisighella grazie all’aiuto di Raffaele Sciuto, notaio faentino. I De Benedetti evitarono la deportazione di cui furono vittime oltre centocinquanta ferraresi: dai campi di sterminio solo cinque di loro fecero ritorno. Scrisse Giorgio Bassani che «la verità è che i luoghi dove si ha pianto, dove si ha sofferto, e dove si trovarono molte risorse interne per sperare e resistere, sono proprio quelli a cui ci si affeziona di più». Per Israel De Benedetti la reazione è stata diversa. Nei suoi libri Anni di rabbia e di speranza, 1938-1949 e I sogni non passano in eredità (Editrice La Giuntina, Firenze) ha raccontato l’esperienza giovanile sotto le leggi razziali e la scelta di emigrare in Israele nel kibbuz di Ruchama nel quale vive tuttora. Qui ha ricoperto l’incarico prima di direttore d’azienda e poi di segretario. Più volte è stato inviato in Italia a rappresentare il movimento giovanile e l’Organizzazione Sionistica Mondiale. Membro della direzione del Partito Merez, della sinistra israeliana, ha scritto numerosi libri e svolto attività giornalistica.
De Benedetti, che ricordo ha di Giorgio Bassani?
«Bassani è stato il mio professore in prima ginnasio e mi aveva in simpatia, una volta leggendo un mio tema disse che sarei diventato certamente un grande scrittore! Era un bravissimo insegnante. Nella scuola ebraica di via Vignatagliata, dove a causa delle leggi razziali noi studenti ebrei fummo costretti a iscriverci, Bassani ci spiegava cosa dovevamo dire agli esami da sostenere alle scuole pubbliche ma poi chiariva che era tutto falso e ci parlava del socialismo, del comunismo, della guerra di Spagna».
Nel 1949 lei ha lasciato l’Italia e ha scelto l’Aliyah, l’immigrazione ebraica verso la terra d’Israele: il suo modello è stato Enzo Sereni?
«Di Sereni ne avevo sentito parlare vagamente ma solo in Israele ho potuto conoscere la sua vita e in seguito abbiamo avuto contatti con Ada Ascarelli, la sua vedova. Dopo il 1945 siamo diventati sionisti perché volevamo trovare un paese nuovo, fuori dall’Italia che ci aveva tradito, e costruire una società nuova nel kibbuz. Nell’ottobre del 1947 sono entrato in “haksharà”, un periodo di preparazione all’emigrazione, in un podere vicino a Bagni di Casciana in Toscana: avevamo una vite, un orto e quattro mucche. Sono partito alla fine del 1949, insieme ad altri compagni. Il primo impatto con Ruchama è stato duro: siamo arrivati con un gruppo di venti giovani italiani, il kibbuz era stato fondato nel 1943 da polacchi, rumeni e bulgari. I quali, convinti che parlassimo anche noi l’yiddish, ci dissero: “Non parlate l’yiddish? Allora non siete ebrei!”. Quello che ci ha aiutato è stato essere un gruppo compatto, esserci aiutati gli uni con gli altri. All’inizio non avevamo acqua in casa, non c’era telefono e elettricità ma poi un passo alla volta abbiamo creato tutti i servizi e lavorato in agricoltura. Sono stato tre volte inviato da Israele in Italia a rappresentare l’agenzia ebraica, nel 1952 e 1960. Mia moglie, di origine bolognese, aveva studi di medicina ma piantò tutto per diventare membro del kibbuz».
Che cosa prova nel vedere oggi il significato del sionismo distorto e usato spesso in termini dispregiativi?
«Prima di tutto l’ideologia sionista, e cioè trovare un posto per gli ebrei cacciati da tutto il mondo (non dimentichiamo che quando iniziarono le persecuzioni in Germania nessun Paese accettava gli ebrei) era giusta ma dall’inizio si dovevano costituire uno stato ebraico e uno arabo. Gli arabi non l’hanno voluto nel 1948 e neanche più tardi. Anche oggi la situazione si può risolvere a tavolino in due minuti: Israele si deve ritirare dai territori occupati e devono esistere due stati vicini, in pace, in federazione, autonomi, ma due stati indipendenti uno accanto all’altro».
Lei ha alle spalle oltre settanta anni di storia dello stato di Israele, dal socialismo applicato alla vita nei kibbuz passando da Rabin fino all’attuale guida politica del Likud: cosa ne pensa dell’attuale governo?
«Su quello che penso oggi della direzione del mio paese mi rifaccio a quanto ho già scritto in passato: abbiamo un capo, Netanyahu, che si comporta come un duce e il popolo batte le mani. Speriamo che, come Donald Trump, se ne vada alle prossime elezioni ma abbiamo poche speranze. Purtroppo i partiti di centro sinistra si sono divisi in tanti partitini invece di trovare un’unità tra loro. Ho letto i 14 punti di Umberto Eco: purtroppo sono molto simili alla nostra condizione attuale».