Andrea Emiliani raccontato dal fratello Vittorio
“Dalla finestra vedeva Raffaello. Andrea Emiliani. Una vita per il Bel Paese”, pubblicato recentemente da Carta Bianca di Faenza, è il libro che lo scrittore e giornalista Vittorio Emiliani ha dedicato al fratello Andrea (Predappio, 1931 – Bologna, 2019).
Un doppio ritratto, privato e pubblico, per raccontare Andrea Emiliani e la sua attività di storico dell’arte, scrittore, sovrintendente per i beni artistici e storici, direttore della Pinacoteca Nazionale di Bologna e fondatore dell’Ibc Emilia-Romagna. Ne parliamo con l’autore, grande giornalista e direttore di quotidiani, noto scrittore e divulgatore.
Emiliani, il titolo del libro è un richiamo al legame di Andrea, e suo, con Urbino. Si può definire come una spirale che si riavvolge, un continuo ritorno a casa, il lavoro culturale svolto da Andrea?
«In effetti sì, i “ritorni” e i rimandi a Urbino sono frequenti nell’autobiografia di Andrea e quindi anche nel mio libro a lui dedicato. Certo è che Raffaello Sanzio e Federico Barocci, urbinati, rimarranno per tutta la vita i “suoi pittori” insieme ai bolognesi, certo, ai Carracci, a Reni, a Guercino, a Crespi e però con qualcosa in più. La “cultura della manualità”, l’arte della mano che lo stesso Andrea aveva molto sviluppata da adolescente nella costruzione di aquiloni, slitte, biroccini, trottole, veniva certamente dal fatto di essere vissuto e cresciuto per oltre un decennio in una città allora fortemente artigiana (intarsio del legno, ferro battuto, lavorazione della pietra, tappeti di lana, restauro del libro) e che oggi, a parte le stampe d’arte, è purtroppo quasi scomparsa. A Bologna, non a caso, porterà a restaurare da Otello Caprara il formidabile studiolo di legno intarsiato del duca Federico e con Ottorino Nonfarmale svilupperà il fondamentale laboratorio sul risanamento dell’arenaria e della pietra in genere».
Andrea Emiliani ha collaborato con uomini straordinari, ne vuole ricordare alcuni?
«Nel suo percorso ebbe la fortuna di vedere all’opera, ancora a Urbino, un soprintendente di grande qualità, attivismo e ingegno: Pasquale Rotondi. E a Bologna, da poco lasciata da Roberto Longhi ma non dal suo alto magistero, collaborò subito con Francesco Arcangeli che gli allargò gli orizzonti sul paesaggio, sulla natura. Poi Cesare Gnudi, grande soprintendente, che lo assunse a vent’anni. Quindi lo scrittore Giuseppe Raimondi e il suo omonimo Ezio, letterato veramente originale, il geografo e storico Lucio Gambi e, in occasione delle Biennali di Arte Antica, studiosi di tutto il mondo, da sir Denis Mahon per continuare con i francesi Chastel, Laclotte, Beguin, il tedesco Voss, gli americani Clark e De Montebello, e tanti altri».
Con Andrea avete condiviso molte iniziative per la tutela del patrimonio artistico e del paesaggio.
«Certo, la nostra cultura aveva radici comuni. Io poi diventai il divulgatore e lui lo scienziato. Su certi temi, come quello dell’urbanistica e del territorio (collaboravo a Comunità di Olivetti, ero redattore e poi inviato del Giorno molto presente su questi argomenti assorbiti da un grande giornalista dimenticato, Franco Nasi) credo di aver dato anch’io qualche stimolo. Lavorammo assieme per la ricerca che generò nel 1980 la mostra “Arte e pietà”, con un bellissimo catalogo sui materiali, soprattutto tessili, delle Opere Pie bolognesi, da lui organizzata al Baraccano e durata troppo poco. Ne avevo parlato e denunciato lo stato in un capitolo del mio libro L’Italia mangiata, lo scandalo degli enti inutili intitolato “Opera mia, opera piglia” (Einaudi, 1977). Partecipai anche a una delle campagne di rilevamento – quella sulla Valle del Reno dove sorge il borgo natale di Enzo Biagi, Pianaccio nel comune di Gaggio Montano – dove ci fu un dibattito molto interessante con i montanari residenti o pendolari, che si erano costruiti certe orribili villette cementizie da Andrea definite “geometrili” e che invece loro preferivano alle vecchie case di sasso. Noi sostenevamo che, restaurate in modo intelligente, avrebbero conservato al paese la sua identità e sarebbero state ugualmente confortevoli se non di più. Esperienze personali e collettive straordinarie fissate in immagini quanto mai incisive e documentali dal grande Paolo Monti, divenuto amico inseparabile e al quale Andrea ha dedicato l’ultima mostra a Forlì prima di spegnersi il 25 marzo 2019. Il patrimonio di Monti, scomparso nel 1982, rischiava di andare disperso: Andrea riuscì a creare a Milano una fondazione e a salvare così decine di migliaia di negativi».
Le campagne di rilevamento hanno ispirato l’idea del territorio come museo.
«Quelle campagne di rilevamento interdisciplinari con le quali furono censiti territori, paesaggi, percorsi stradali antichi (le Vie del Sale, esempio, o certe Francigene), borghi fortificati, rocche, torri di avvistamento, pievi e badie, chiese modeste e altre invece affrescate, macchie appenniniche e alberi storici, hanno certamente sviluppato in Andrea il concetto del territorio come museo integrale e interattivo. L’idea più avanzata certamente maturata in Italia (e non soltanto) e che gli fece scrivere di una “terza età” del museo e dall’imprescindibilità del rapporto organico fra museo e territorio. Purtroppo invece denegata, fatta a pezzi dalla riforma/deforma Franceschini basata sulla separazione chirurgica fra museo e territorio. Una follia».
Andrea Emiliani e la Romagna: cosa ricordare?
«Intanto l’originale lavoro di “riscoperta” della Romagna effettuato da Andrea con grandi libri come Questa Romagna 1 e Questa Romagna 2. Poi il suo interesse per l’architettura, soprattutto neoclassica, romagnola: Pistocchi, Antolini, Morelli, Morigia e altri ancora. L’acquisto di Palazzo Milzetti a Faenza, un gioiello, affrescato da Felice Giani, o la salvezza, fra roventi polemiche, del San Domenico di Forlì divenuto, grazie a lui e a pochi amici forlivesi (Marina Foschi, Sauro Turroni, Luciana Prati) il cuore pulsante della città. E ben altro se ne potrebbe fare… ben altro. Per la città e per la Romagna tutta».