Cristiano De Andrè in concerto questa sera a Cesena
Come sta andando, Cristiano, questa overdose di rinnovati consensi per Fabrizio?
«Sta andando a gonfie vele. Sono felice che la gente abbia accolto questo nostro spettacolo nel modo giusto, dopo tanto lavoro è una bella soddisfazione. Dalla cura degli arrangiamenti alle proiezioni video, è un meraviglioso incastro».
I video che accompagnano i brani erano meno in voga nell’era Faber.
«“Storia di un impiegato” è un album difficile, i video aiutano a seguire le parole, a immergerti nel significato. Come ne “Il bombarolo” accompagnato dalla parodia del manifesto americano “I want you”. Ma le immagini legate ai brani ritmano anche la nostra storia: da quelle di piazza Fontana a Pasolini, Berlinguer, Nixon, Freud, Cristo».
Quale consapevolezza la spinge a fare rivivere un album e un “movimento” al quale non ha direttamente preso parte?
«Il ’68 ha avuto una coda fino agli anni Settanta, attorno al ’78 ho incominciato a capire. Ho sposato questo titolo per dare indicazioni suggeritemi da mio padre, per riportarle ai giorni nostri. I brani che propongo raccontano di noi oggi, di un ’68 che si sta riproponendo sotto certi aspetti, pensiamo alle lotte dei “gilet gialli” in Francia, alla voglia di trasparenza politica, al desiderio di abbattere questi muri oscurantisti. C’è un ritorno a un ideale di quegli anni mai morto. Perché è un sogno».
Quale sogno?
«Il sogno pacifista sempre dentro di noi, dobbiamo solo risvegliarlo con un po’ di autocoscienza e riportarlo a vivere. Ecco il perché di “Storia di un impiegato”, questo sogno deve tornare nelle nostre mani; in fondo quello era un periodo veramente alto per la musica, la poesia, l’arte. C’è poi stato un oscurantismo, da Berlusconi a Renzi, che ha schiacciato in qualche modo l’arte».
Musicalmente il suo concerto è ricco di tanta musica che rivitalizza anche i testi di suo padre.
«Da musicista quale sono lo porto da un’altra parte rispetto agli arrangiamenti classici di Faber, è un modo di mettere del mio. C’è tanto rock ma è uno spettacolo “world”. Ho cucito tante musiche che ho amato cercando di farle convivere in una maniera piacevole. Momenti rock, elettronici, folk, etnici».
Quale canzone fa da traino?
«La canzone di questo progetto che più ogni volta mi coinvolge, è “La canzone del padre”. È come se gli parlassi, ed è come se lui mi desse il testimone da portare avanti. In quel momento divento lui, è emozionante».
Vent’anni dopo, quale valore permane nella canzone di Fabrizio De André?
«Mio padre è una tachipirina per l’anima, è stato e continua a essere un punto di riferimento; quando lo si scopre è difficile mollarlo. È un appiglio d’amore per il mondo, nel pensiero, nell’incertezza. Per questo sto lavorando per promuoverlo anche fuori dell’Italia, se lo merita, ha dato indicazioni talmente alte che non può che fare bene».
Apertura casse ore 16, cancelli ore 20.
Info: 329 0058054