Crac Ac Cesena, dubbi dei consulenti sul debito col fisco e Lugaresi torna dai giudici per le plusvalenze

’Ac Cesena sarebbe sopravvissuto se l’Erario gli avesse riservato lo stesso trattamento di cui hanno usufruito altre società di calcio, come la Sampdoria, che aveva debiti col Fisco persino più alti dei 40 milioni di euro che erano “sul groppone” del Cavalluccio, o come la Reggina. Ma ha vinto la paura e si è deciso diversamente, col risultato che a rimetterci sono stati tutti: non solo i creditori ma lo Stato, che sono rimasti a bocca asciutta, mentre c’erano forse i margini per rimettere in piedi la baracca.
È il succo che si può ricavare da quanto hanno detto ieri, nella nuova udienza sul crac del Cesena Calcio, due luminari dell’economia e della contabilità: Giuseppe Savioli, professore ordinario di Economia aziendale all’Università di Bologna, e Mattia Berti, commercialista del prestigioso studio La Croce. Sono stati chiamati a parlare davanti ai magistrati in veste di consulenti di parte di due degli imputati accusati di essere stati tra i colpevoli del dissesto dell’Associazione Calcio Cesena: Mauro Giorgini, socio che a un certo fu chiamato a ricoprire il ruolo di amministratore senza deleghe, in un momento molto buio per la società bianconera, convinto da imprenditori amici e col plauso anche del mondo politico (anche se ha chiarito che comunque, nei fatti, il timone era rimasto in mano a Giorgio Lugaresi) e il vice presidente Graziano Pransani, entrambi difesi dall’avvocato Alessandro Sintucci.
Lugaresi rientra in gioco
Ora c’è grande attesa per la prossima udienza, convocata per il 6 maggio, perché tornerà protagonista nell’aula di giustizia Giorgio Lugaresi, che verrà ascoltato come testimone sulla questione chiave delle plusvalenze fatte attraverso il calciomercato, in particolare in collaborazione con il Chievo. Si era avvalso della facoltà di non rispondere, ma ora dovrà farlo, essendo finito il processo tributario in cui era impegnato.
I due consulenti di parte
Tornando a quanto è stato detto ieri, non solo i due consulenti di parte hanno fatto capire in modo molto chiaro che il no che fu detto da Roma al piano prospettato per arrivare a una transazione fiscale sui debiti tributari si sarebbe potuto evitare, ma hanno sottolineato che mentre la situazione si era deteriorata su quello specifico versante, l’indebitamento totale (e alla fine era quello che contava di più) era diminuito di circa 35 milioni di euro rispetto al picco ben superiore a 100 milioni che si era toccato. Hanno poi aggiunto che, prima che la situazione precipitasse, come chiarito anche dal curatore, le rate pattuite erano state pagate, anche perché altrimenti la Covisoc non avrebbe iscritto la squadra ai campionati. Hanno poi fatto notare che quelle di calcio sono società molto particolari, perché se falliscono i giocatori si svincolano e quindi perdono il loro patrimonio, che è essenzialmente costituito dal valore di mercato che i loro calciatori hanno. Come dire che non avere probabilmente esplorato fino in fondo le possibilità di salvataggio che potevano esserci è stato alla fine un suicidio in piena regola, anche per lo stesso Erario. Tra l’altro, dall’udienza di ieri è anche emerso che molti degli attori della vicenda andata poi a rotoli avevano fatto in pieno la loro parte, a cominciare dai soci, che dal momento del loro ingresso hanno sborsato un totale di circa 18 milioni di euro, confortati anche dai sindaci revisori, che pur non tacendo i problemi esistenti hanno attestato fino all’ultimo che c’erano le condizioni sufficienti per la continuità aziendale.
In definitiva, da quanto hanno detto ieri Savioli e Berti alla presenza del collegio dei giudici (presieduto da Marco De Leva con a latere Giorgia Sartoni e Federico Casalboni) e davanti al pubblico ministero Francesca Rago, è parso di capire che si è arrivati al fallimento essenzialmente per due ragioni. Da una parte, perché è saltato l’accordo che avrebbe consentito di pianificare un rientro graduale dei debiti col Fisco, come si è fatto invece in altre situazioni simili. Dall’altra parte, perché a un certo punto i soci, intuendo che la barca correva seriamente il rischio di affondare, hanno comprensibilmente smesso di iniettare soldi.