Cesena, battaglie giudiziarie per anni con l’ex moglie: cadono le ultime accuse al direttore della radio

La Corte d’Appello ha ribaltato nei giorni scorsi la sentenza con cui Franco Botta, direttore di Radio Centrale, era stato condannato in primo grado, nell’aprile 2022, a una pena di 3 mesi e 1.000 euro di multa per mancato sostentamento alla famiglia. Una famiglia di cui fanno parte anche due figli, ora maggiorenni, dopo la separazione dalla moglie, che nel 2018 lo aveva querelato. I tre giudici di Bologna, sotto la guida della presidente Anna Mori, hanno assolto l’imputato, difeso dagli avvocati Letizia Raggini di Cesena e Felice Zaccone di Bologna, con la formula più piena: “perché il fatto non sussiste”. Si chiude così un cerchio andato avanti per anni, con vari procedimenti giudiziari, tutti conclusi positivamente per Botta.

Tante accuse cadute

Tra le accuse più gravi rivolte contro di lui c’erano state quelle per i reati di minaccia, maltrattamenti e violenza privata, tutte morte sul nascere con archiviazioni senza arrivare al processo. Nel 2018, sempre collegato alla guerra legale che coinvolgeva i coniugi, era scattato un decreto prefettizio che aveva fatto scattare il sequestro di armi a casa di Botta da parte dei carabinieri, ma l’anno seguente il Tar di Bologna lo aveva annullato, restituendole al legittimo proprietario e condannando del Ministero dell’Interno alla rifusione delle spese. Nel 2019, un altro filone legato a vicende giudiziarie che erano in piedi era stata l’accusa di tentativo di rivelazione di segreti d’ufficio, per avere tentato di acquisire notizie che dovevano rimanere segrete durante un interrogatorio presso la stazione dei carabinieri di Cesena, ma anche in quel caso c’era stata l’assoluzione da parte del tribunale di Forlì, “perché il fatto non sussiste”.

Sciolto l’ultimo nodo

Rimaneva in piedi la questione del mancato sostentamento ai suoi cari, che Botta considera «uno dei reati più infamanti che ci siano» e ora, dopo un’iniziale condanna, anche quell’accusa si è rivelata infondata: davanti alla Corte d’Appello è stata chiesta e ottenuta la discussione orale alla presenza di Botta, invece del semplice esame “cartolare”, come avviene di solito in secondo grado, e i giudizi hanno riconosciuto che la documentazione prodotta provava che l’imputato non solo non aveva fatto mancare il suo sostentamento a moglie e figli, ma era andato ben oltre lo stretto necessario, pagando per esempio vacanze e auto. Botta, che aveva annunciato che non avrebbe accettato l’assoluzione per prescrizione che era alle porte, perché voleva che fosse accertata la sua innocenza, e aveva anche aggiunto che avrebbe reso il suo titolo di cavaliere in caso di condanna confermata, si sente ovviamente sollevato dalla fine del calvario giudiziario.

Sfogo dopo tanti anni

Però Botta invita a fare una riflessione che va oltre il suo caso: «Speriamo che quanto ho vissuto sia d’esempio - commenta - Voglio dare un senso alla mia sofferenza durata quasi 8 anni, con diverse decine di miglia di euro spesi per difendermi, ricordando che c’è chi, a causa di accuse altrettanto ingiuste, è arrivato a impiccarsi. La verità è che in situazioni delicate come queste avvocati, assistenti sociali e forze dell’ordine dovrebbero essere più prudenti».

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