L’ex Carabiniere: «Su di me la macchina del fango, Cattolica troppo operativa, ero scomodo»

Cattolica

Un calvario giudiziario lungo 22 anni a danno di un servitore dello Stato.

Era definito il maresciallo Rocca della Valconca, Antonio Giustini, ex comandante della stazione di Cattolica, prima di piombare in un incubo a occhi aperti, accusato ingiustamente per concussione, accusa poi tramutata in estorsione aggravata e omissione di denuncia. Maresciallo plurimedagliato, in pensione dal 2008, Giustini compirà 75 anni il prossimo 8 luglio. L’assoluzione è arrivata nel 2020 «perché l’azione giudiziaria non doveva essere iniziata» e alla mezzanotte del 3 giugno scorso la sentenza è finalmente passata in giudicato.

Entrato nella Benemerita a 17 anni, è arrivato a Cattolica nel 1992 lottando contro le infiltrazioni della criminalità organizzata.

Giustini, cosa le è stato contestato?

«Ero diventato scomodo perché Cattolica produceva un’attività operativa superiore ad altri Comuni. In sostanza devo aver dato fastidio a qualcuno. Le invidie hanno poi innescato la macchina del fango che nel 2002 è culminata in un’accusa precisa. Avrei indotto il figlio tossicodipendente di un carabiniere in pensione a pagare un debito contratto con uno spacciatore, peraltro un informatore della stazione carabinieri. Nessuno, però, ha mai trovato nulla a mio carico, né attraverso le intercettazioni ambientali e neppure con ogni sorta di perquisizione. Un teorema campato per aria che, nonostante l’innocenza, mi è costato una sospensione di 20 giorni dall’Arma finché il tribunale delle libertà ha annullato tutto e anche la Cassazione mi ha dato ragione».

Perché, allora, le battaglie legali sono proseguite?

«Dopo una settimana venne cambiato l’articolo del capo d’imputazione: da concussione a estorsione pluriaggravata. Negli anni il mio procedimento divenne poi, con un triste primato, il più vecchio del tribunale di Rimini».

Cosa le ha dato forza di resistere?

«L’amore di mia moglie Maria Rita, con cui sono sposato da 49 anni, la tenerezza delle mie tre figlie e l’appoggio di tutta la scala gerarchica che mi definì l’orgoglio dei carabinieri. Ma con il tempo, dopo il pensionamento di vari superiori, nessuno si è più curato di me. Il sostegno, in pratica, è durato finché il ferro era caldo, ma poi mi sono ritrovato da solo. Grazie al cielo, i miei avvocati, Alessandro Petrillo e Piero Venturi, non mi hanno mai abbandonato. Non ultima è stata determinante anche la solidarietà dei cattolichini: per tutti, qui in città, sono ancora “il maresciallo” e tuttora c’è chi viene a chiedermi consigli. Ma a tenermi in vita è stata soprattutto la fede: sono un diacono dal 2010, catechista da sempre e da lungo corso presidente della Caritas di Cattolica. Ho sempre fatto del bene ed è l’unica cosa che non hanno mai potuto impedirmi. Tra le attestazioni di stima ricordo, invece, la dedica che il generale dei carabinieri, Mario Mori, mi scrisse sul suo libro, “per le comuni battaglie”, chiedendo di conoscermi».

A cosa ho rinunciato?

«A un terzo della mia vita. Neanche chi ha commesso un omicidio resta in carcere 23 anni. Io, invece, sono rimasto prigioniero di un’ingiustizia. Un dramma che non auguro neanche al peggior nemico».

Il momento più difficile?

«Di notte, quando sentivo piangere le mie figlie, mentre soffocavano i singhiozzi pensando che dormissi. Invece il sonno mi ha abbandonato da anni. Senza la mia famiglia non so che fine avrei fatto».

Di cosa ha avuto paura?

«Di morire prima che la verità emergesse».

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